Quello che abbiamo visto al recente Salone di Hannover – e che vi raccontiamo nel nuovo numero di Uomini e Trasporti, in distribuzione in questi giorni e già online sul nostro sito – restituisce il senso di un momento vivace per il comparto dei veicoli industriali dal punto di vista tecnologico.
Un momento in cui si affastellano non solo nuovi produttori di camion elettrici (vedi Volta Trucks, Tevva, Byd, Hyzon) tutti pronti a sfidare senza timore le più blasonate «sette sorelle» e a provare, in generale, a ridisegnare il mercato su scala globale), ma anche operatori specializzati in retrofit per la conversione dei veicoli da endotermici a zero emissioni (Pepper), esploratori della guida autonoma (Einride), sognatori (o sarebbe meglio dire «concretizzatori») di soluzioni a idrogeno a elevata perfomanza prossime alla commercializzazione (Quantron).
Del resto, il mercato dei camion in Europa è statico da decenni, animato da sempre dalle «magnifiche 7» (a cui si è aggiunta in tempi recenti un’ottava, Ford Trucks). Ma ora che la transizione energetica sta buttando giù le barriere all’ingresso, ora che anche nell’autocarro si teme l’effetto Tesla (con i nuovi operatori che stanno creando qualche patema ai costruttori tradizionali), ecco che le case costruttrici fanno quadrato, creano joint venture impensabili fino a ieri e corrono per essere le prime a offrire i nuovi veicoli elettrici richiesti dall’Europa e dal pianeta.
A ciò bisogna però aggiungere che, mentre i costruttori investono nel domani, contemporaneamente devono puntellare il presente, quello che ancora garantisce i fatturati con cui proiettarsi nel futuro. E il presente, comunque la si metta, si chiama e si chiamerà «diesel» ancora per un paio di decenni abbondanti. Ecco perché, magari in posizione più defilata, su quasi tutti gli stand dei costruttori tradizionali comparivano motori endotermici ottimizzati in grado di consumare (e quindi di inquinare) meno, ma anche tante lussuose e funzionali dotazioni supplementari per gli interni cabina, utili ad accarezzare autisti sempre meno reperibili. Insomma, uno sguardo alla tecnologia e uno all’uomo.
Abbiamo provato a raccontarvi tutto ciò nello «Speciale IAA» nel nuovo UeT di ottobre, dove è possibile trovare un’ampia carrellata di foto, approfondimenti e curiosità sulle principali novità esposte al salone tedesco.
Un nuovo nome, un’immagine rinnovata e servizi ancora più accurati: così si è presentato al grande pubblico degli autotrasportatori italiani ed europei l’Autoparco Brescia Est nello scorso fine settimana dell’1 e 2 ottobre, quando, nella cornice dell’evento-raduno Universal Truck Show, è stata presentata la nuova immagine e la nuova denominazione dell’autoparco più grande d’Europa.
Il nuovo nominativo attribuito all’area di Castenedolo, in provincia di Brescia, è quello di «Truck Park Brescia Est»: un luogo utilizzato da oltre 150.000 veicoli pesanti ogni anno, in sosta nei suoi 367 parcheggi siti all’interno di 173 mila metri quadri di superficie, che fanno dell’area bresciana l’autoparco più ampio del continente e dove trovano spazio molteplici servizi per i trasportatori come l’albergo Santa Giulia, il distributore carburante, il market, il servizio di officina e lavaggio camion, ma anche attività rivolte all’intera categoria dei viaggiatori autostradali, come il ristorante e il servizio di ricarica per veicoli elettrici.
Tutte caratteristiche che sono state implementate da un nuovo sistema di sicurezza per la sosta dei camion, che mette a disposizione dei clienti sia telecamere a circuito chiuso che sorveglianza attiva, all’interno di un’area totalmente recintata. Requisiti che hanno recentemente garantito all’autoparco del Gruppo A4 Holding la certificazione «European Secure Parking Organization» di livello «GOLD» rilasciata da ESPORG, l’organizzazione europea che supporta spedizionieri, operatori della logistica e camionisti per i viaggi e la sosta in piena sicurezza sulle strade continentali.
A presentare la rinnovata cittadella dei trasporti i sono intervenuti nella mattinata di sabato 1 ottobre i vertici della società autostradale del Gruppo A4 Holding e quelli della sua controllata A4 Trading, una realtà aziendale attiva da quasi vent’anni nei servizi all’utenza connessi alla mobilità lungo la A4 Brescia-Padova e l’A31 Valdastico.
Un’immagine dell’evento-raduno Universal Truck Show2022, che si è tenuta il 1 ottobre al nuovo Truck Park Brescia Est. Foto da pagina facebook Truck Look
La carenza di autisti fa paura. Non soltanto alle aziende di autotrasporto e al mondo della logistica, ma anche a quello produttivo. Lo dimostra in modo evidente la posizione espressa in questi giorni dall’ISOPA, l’Associazione europea di prodotti chimici (in particolare isocianati e polioli), in parte mutuata da una precedente analisi dell’ECTA (Associazione europea per il trasporto di sostanze chimiche), in cui si esprime – se possibile – una situazione ancora più critica di quella riscontrabile nel mercato in generale. Nel mondo della chimica, infatti, non soltanto si registra – come altrove – un aumento dell’età media dei conducenti, ma esistono anche vincoli normativi e formazione specifica che rendono il lavoro anche più gravato di responsabilità. Prova ne sia che «ogni anno si ritirano più conducenti di quanti ne entrano».
Per frenare questo saldo negativo esistono diversi modi. Uno decisivo, già proposto da ECTA, riguarda i tempi di attesa. Secondo questa associazione – citata da ISOPA – «circa il 30% delle spedizioni di prodotti chimici supera un tempo di attesa di 3 ore», considerando cioè il lasso di tempo che trascorre dall’arrivo del camion nel sito alla sua partenza. E sicuramente questa lunga e spesso incerta attesa diventa una forte motivazione per gli autisti a cambiare lavoro. Di conseguenza, nell’idea dei produttori chimici, rimuovendo tale fattore non soltanto si porrebbe un freno all’emorragia di conducenti verso altri lavori o verso altri segmenti di trasporto «meno impegnativi e in grado di garantire un migliore equilibrio tra lavoro e vita privata» (per esempio, come gli autisti al servizio dell’e-commerce), ma «si incrementerebbe la loro produttività di almeno il 10%».
Facile a dirsi, ma come agire in concreto? Alla radice di tutto, secondo ISOPA, c’è «l’eccessiva ottimizzazione» nei siti di carico e scarico, che è avvenuta «a scapito di una maggiore flessibilità del conducente». In pratica, si è cercato di migliorare le procedure e di renderle più economiche in modo assolutamente «unilaterale» e, per tutta conseguenza, è stata generata una situazione non «più sostenibile» perché finisce per pesare sulla produttività degli autisti e sull’attratività stessa del lavoro.
Da qui ISOPA, in condivisione con ECTA, ha steso un elenco concreto di proposte per contenere la carenza di autisti e migliorare i processi di carico e scarico. In particolare, propone di:
adattare e riconsiderare le pratiche di inventario del siti
revisionare gli orari di apertura dei siti di carico/scarico
assumersi la responsabilità di esternalizzarele operazioni del sito
creare maggiore flessibilità di prenotazione degli slot
relazionarsi ai conducenti con maggiore rispetto
supportare le iniziative finalizzate a introdurre la registrazione dei varchi in modo digitale.
È molto probabile che chi, verso metà o fine ottobre, avrà la responsabilità di amministrare il ministero di piazza di Porta Pia a Roma, quello che – comunque si chiami – avrà competenza sui trasporti, voglia concentrarsi, almeno inizialmente, su azioni semplici e poco divisive. Perché quando le soluzioni a una problematica sono individuate in modo contrapposto dalle parti sociali, la scelta rispetto a quale privilegiare assume un connotato politico. E ritengo che un ministro di un governo di cambiamento, marchiato con caratteri politici evidenti, preferirà agire in maniera quasi tecnica, assumendo cioè posizioni il più possibili unanimi. La prima in tal senso potrebbe essere quella di lavorare sulle accise, ripristinando in maniera finanziariamente e ambientalmente corretta il loro recupero da parte degli autotrasportatori, tirandoli fuori dal mare magnum del taglio generalizzato. In questo modo otterrebbe un beneficio indiretto l’intera economia perché il trasporto, in un frangente segnato dal rialzo dei prezzi dei carburanti, genera un effetto moltiplicatore dell’inflazione, a tutti sgradito.
Una seconda misura non-divisiva potrebbe essere quella di dedicare all’autotrasporto una quota del decreto flussi, così da creare un bacino occupazionale con cui tamponare la carenza di autisti nel breve termine. Tema, questo, imparentato con l’altro dell’immigrazione. E siccome il governo di destra ha dichiarato di voler gestire quella regolare per combattere l’irregolare, il decreto flussi potrebbe fornire un modello utile, perché crea una corsia preferenziale verso settori economici affamati di mano d’opera e che magari potrebbero essere tentati, per soddisfarla, di guardare all’illegalità o di forzare qualche ambiguo istituto giuridico (leggi: distacco).
Una terza misura non-divisiva potrebbe essere quella di abbassare a 19 anni l’età minima per prendere la patente, vale a dire in un momento più prossimo alla fine del percorso scolastico, quando cioè si sceglie una via di accesso nel mondo del lavoro, tralasciando il camion giacché per guidarlo serve aver compiuto 21 anni.
Appare più divisiva, invece, l’attuazione del regolamento UE 1055/2020 legata al requisito dello stabilimento, laddove pretende una proporzione tra il numero di veicoli e autisti in disponibilità di un’impresa e la dimensione del suo fatturato. È evidente, infatti, che gli elevati fatturati di chi ha pochi veicoli vengano creati sfruttando l’intermediazione. Ma stabilire quale sia la proporzione corretta è questione politica, perché al riguardo grandi e piccole imprese hanno interessi fortemente divergenti. Quindi, è probabile che un ministro non-divisivo voglia astenersi dal prendere posizione netta in materia.
Se poi «il ministro che verrà» volesse essere oltre che non-divisivo anche anti-divisivo, mi permetto di suggerirgli di favorire con incentivi economici le aggregazioni tra società attive su modalità diverse. Lo dico perché ricordo che fino a non troppi anni fa strada e rotaia si muovevano «l’una contro l’altra armate», pensando – con un certo strabismo – che fosse in gioco una competizione, tale per cui se la merce sale sul treno, lascia vuoto il camion e viceversa. Oggi non soltanto la logica intermodale si è virata di verde, ma soprattutto è diventata necessaria. Perché sarebbe impossibile convertire in elettrico l’attuale parco circolante diesel, riuscendo a generare l’energia sufficiente a garantire la stessa potenza prodotta attualmente dal gasolio bruciato dai camion. Ragion per cui l’unica transizione possibile per assicurare anche domani alle merci la stessa mobilità di oggi è quella di conciliare il dialogo tra le modalità partendo dal piano operativo, aggregando cioè realtà diverse – attive su strada, ferro o mare – per crearne una sola in grado di far prendere a ogni merce la strada più efficiente, più sostenibile, più economica. E in fondo più rispettosa delle persone, perché un camion che percorre migliaia di chilometri per forza di cose logora chi lo guida, in quanto lo costringe a usuranti trasferte lontano da casa, trascorse in aree di sosta sguarnite, sacrificando la propria vita privata sull’altare del lavoro. Quindi, un’aggregazione intermodale renderebbe più sereno il rapporto tra diverse modalità di trasporto, tra movimentazione delle merci e ambiente e tra giovani e autotrasporto. Tre vantaggi in una norma sola.
anche partendo da un punto di osservazione “ministeriale”, non si possono non condividere i presupposti e gli obiettivi che tutte le organizzazioni rappresentative delle imprese di autotrasporto hanno posto alla base delle loro proposte alla politica, avanzate in occasione delle elezioni per il rinnovo del Parlamento: il riconoscimento dell’importanza fondamentale del settore dell’autotrasporto e della logistica per il nostro Paese (circa 90.000 imprese, che sviluppano 180 milioni di euro di fatturato), ormai ampiamente acclarato a tutti i livelli istituzionali ed economici, deve passare dalle parole ai fatti, trovando rispondenza in iniziative concrete, di breve come di medio periodo. In effetti, aldilà della contingenza emergenziale che oggi attraversa tutti i comparti economici, i mali endemici che affliggono il settore dell’autotrasporto non hanno ancora trovato soluzioni in grado di superarli. Le ricette proposte dalle associazioni di categoria hanno, ovviamente, molti punti in comune, e impegnano il nuovo Parlamento e l’Esecutivo, oltre che le autorità ministeriali competenti, a intraprendere iniziative di diverso contenuto, che interessano ovviamente aspetti economici, sociali e professionali, ma soprattutto riguardano il campo delle regole. Vale la pena di soffermarsi su alcune di queste, che meritano adeguata valutazione in quanto suscettibili di impattare positivamente sul governo del settore, in un’ottica di maggiore trasparenza del mercato e di semplificazione dei servizi:
occorre dare vita a quello che appare il necessario completamento dell’attuazione del regolamento UE 1055/2020, per la parte che interessa il requisito dello stabilimento, con una norma che consenta l’effettivo rispetto della proporzione tra il numero dei veicoli e dei conducenti in capo all’impresa e il volume delle operazioni di trasporto dalla essa effettuate. In tal modo, si potrebbero realmente contrastare quelle forme di intermediazione, che non danno alcun valore aggiunto all’attività di autotrasporto;
vanno ripresi in esame i criteri inerenti la rappresentanza delle imprese del settore, perché si attivi un confronto pubblico/privato, volto ad assicurare che siano i soggetti associativi degli autotrasportatori ad avere la titolarità di tale rappresentanza;
appare ineludibile un riesame della normativa sui costi di riferimento, con l’obiettivo di contrastare forme di concorrenza sleale, aggravate dall’attuale stato di crisi economica, con l’applicazione di prezzi dei servizi non coerenti con gli effettivi costi di esercizio delle imprese. La soluzione che verrà individuata dovrà comunque rispettare la disciplina comunitaria in materia di libertà di concorrenza, tenendo conto della sentenza emessa dalla Corte europea di giustizia nel settembre del 2014;
è necessario affrontare con carattere priorità il tema delle attese al carico e scarico delle merci. Una analisi condotta proprio da Uomini e Trasporti ha fatto emergere disfunzioni e inefficienze lungo la catena logistica, con perdite di tempo che coprono quasi la metà dell’impegno medio giornaliero di un autista. Evidentemente, la disciplina dei tempi massimi di attesa, prevista dall’ormai datata legge 127 del 2010, che fissa in due ore il periodo di franchigia, e un indennizzo di 40 euro/ora si è rivelata insufficiente. Infine, last but not least, occorre portare avanti l’azione intrapresa dal MIMS nel corso di quest’anno con l’istituzione di una Commissione incaricata di redigere un documento programmatico per l’individuazione delle infrastrutture e dei sistemi di mobilità prioritari per lo sviluppo sostenibile del Paese, allo scopo di dar vita al Piano generale dei trasporti e della logistica. Va ricordato che, dallo scorso mese di giugno, accanto alla Commissione opera un Comitato scientifico, con la presenza degli stakeholder del settore, che ha il compito di svolgere attività consultiva, propositiva e di supporto alla Commissione stessa per la definizione dei piani settoriali. Si tratta di iniziative che richiedono uno sforzo congiunto degli organi amministrativi, esecutivi e legislativi: c’è quindi da augurarsi che non si applichi il deleterio criterio di demolire quanto fatto finora e che anzi riprendano quanto prima i lavori dei tavoli dedicati al settore della logistica “ereditati” dal precedente Esecutivo.
Per rispondere bisogna fare una premessa. Il contratto di trasporto si configura quale contratto a favore di terzi, ossia quale contratto nell’ambito del quale uno dei contraenti (il vettore) si obbliga nei confronti dell’altro contraente (mittente/committente) a eseguire una prestazione (il trasferimento delle merci da un luogo a un altro) a favore di un terzo (destinatario delle merci trasportate). Proprio tale peculiare caratteristica del contratto di trasporto giustifica l’interrogativo che si pone il lettore: come individuare correttamente a quale di tali soggetti spettino, in caso di criticità nell’esecuzione del contratto, i diritti risarcitori nei confronti del vettore? E in particolare in caso di perdita o avaria delle merci trasportate il diritto a richiedere il risarcimento del danno spetta al contraente/mittente del carico, oppure al terzo beneficiario del contratto (destinatario delle merci trasportate)?
Il quesito è tutt’altro che marginale o teorico, posto che in giurisprudenza non è inusuale imbattersi in sentenze che respingono le richieste risarcitorie nei confronti del vettore in quanto proposte da soggetti privi di legittimazione attiva. La soluzione si ricava dalla lettura dell’art. 1689 cod. civ. rubricato «Diritti del destinatario», per effetto del quale «I diritti nascenti dal contratto di trasporto verso il vettore spettano al destinatario dal momento in cui, arrivate le cose a destinazione o scaduto il termine in cui sarebbero dovute arrivare, il destinatario ne chiede la riconsegna al vettore». Ecco, quindi, chiarito come il momento della riconsegna delle merci trasportate rappresenti anche il momento del trasferimento dal mittente al destinatario dei diritti derivanti dal contratto di trasporto. Ne consegue che il risarcimento del danno derivante dall’avaria delle merci trasportate spetta pacificamente al destinatario del carico. Ma come ci si regola, invece, nel caso di perdita totale del carico, con conseguente mancata riconsegna? In questo caso occorrerà verificare se, scaduto il termine previsto per la riconsegna, il destinatario abbia formulato nei confronti del vettore espressa richiesta di riconsegna, oppure no. Nel primo caso l’espressa richiesta di riconsegna rappresenta l’elemento che consente la traslazione dei diritti dal mittente al destinatario. Se, viceversa, il destinatario non formalizza nei confronti del vettore una richiesta di riconsegna del carico, i diritti risarcitori permangono in capo al mittente, il quale sarà, quindi, l’unico soggetto titolato all’esercizio dell’azione risarcitoria nei confronti del vettore.
Nella prassi spesso accade che gli interessati al carico tendano a disinteressarsi delle tematiche sopra tratteggiate in quanto, in presenza di una copertura assicurativa sulle merci trasportate, il danno subito dovrebbe essere loro risarcito dagli assicuratori del carico. Si tratta di un errore che va accuratamente evitato. Come è noto, i diritti derivanti dal contratto di trasporto si prescrivono in dodici mesi e talvolta, soprattutto in presenza di danni di rilevante entità che comportino accertamenti peritali di una certa complessità, l’indennizzo assicurativo potrebbe essere corrisposto dalla compagnia con tempistiche prossime (o talvolta anche superiori) ai dodici mesi. Tutte le polizze assicurative prevedono sempre che l’assicurato abbia l’obbligo di preservare la successiva azione di rivalsa della compagnia nei confronti del responsabile del danno (in questo caso, quindi, nei confronti del vettore): ne consegue che, in pendenza della procedura di liquidazione del sinistro, l’assicurato ha l’obbligo di mantenere interrotta la prescrizione nei confronti del vettore, cosicché l’assicuratore, una volta pagato l’indennizzo, abbia la possibilità di agire in rivalsa nei confronti del vettore. Ovviamente la raccomandata interruttiva della prescrizione dovrà essere inviata al vettore da parte del soggetto che, in quel momento, sia l’effettivo titolare dei diritti nei confronti del vettore, in quanto atti interruttivi posti in essere da soggetti privi di legittimazione attiva sarebbero privi di efficacia: ecco, quindi, che anche in questi casi è importante che l’interessato al carico/assicurato si premuri di individuare correttamente in capo a chi spettino tali diritti derivanti dal contratto di trasporto, applicando correttamente le sopra richiamate regole dettate dall’art. 1689 cod. civ. Eventuali errori compiuti in questa delicata fase potrebbero, infatti, comportare quale non desiderabile conseguenza la prescrizione dei diritti risarcitori nei confronti del vettore, nonché la decadenza dell’assicurato dal diritto a percepire l’indennizzo assicurativo.
Mi è venuto in mente di scrivere questo approfondimento, quando si è rivolto a me un imprenditore che lamentava problemi di liquidità, nonostante l’azienda fosse in costante utile. Alla domanda di come utilizzava la liquidità, l’imprenditore mi ha però risposto in modo vago e superficiale, non ha saputo dettagliare e motivarmi la causa. Mi sono accorto, quindi, che non conosceva in che modo la sua azienda stesse bruciando liquidità. Per capire meglio in che modo fosse stata gestita la cassa e il conto corrente di banca, ho utilizzato uno strumento ad hoc: il rendiconto finanziario. Il rendiconto finanziario, infatti, è un documento che riassume la movimentazione dei flussi di cassa nel corso dell’anno. In particolare, individua quali sono le fonti che hanno incrementato la liquidità disponibile per la società e quali sono gli impieghi che, al contrario, l’hanno ridotta.
Il rendiconto finanziario riassume, pertanto, la movimentazione del conto corrente, secondo tre aree: 1. le risorse finanziarie generate o assorbite dalla gestione caratteristica dell’impresa; 2. le risorse finanziarie generate o assorbite dalla politica di investimento ovvero nuovi acquisti o disinvestimenti di beni ammortizzabili; 3. le risorse finanziarie generate o assorbite dalla gestione finanziaria ovvero il ricorso a nuovi finanziamenti o il rimborso di debiti e finanziamenti. Tra queste tre grandezze, sicuramente la prima è quella più importante. Se l’attività caratteristica genera liquidità sufficiente, vuol dire che l’attività operativa funziona e, magari, può essere sufficiente per effettuare investimenti e per rimborsare i finanziamenti e, anche, per distribuire gli utili ai soci. Vediamo quindi più nel dettaglio il cash flow dell’attività caratteristica.
Come sappiamo, non tutti i ricavi si trasformano immediatamente in denaro liquido, proprio perché non tutti i clienti pagano immediatamente (per via di ritardi o di dilazioni di pagamento concesse). Lo stesso discorso vale per i costi. Pertanto, è indispensabile prendere in considerazione, oltre ai ricavi e ai costi, le variazioni dei crediti/debiti/rimanenze (capitale circolante). Quindi nel cash flow operativo ci vengono restituite due importanti informazioni: • il Cash flow operativo prima delle variazioni del capitale circolante; • il Cash flow operativo dopo le variazioni del capitale circolante. Il primo è un indicatore che ci informa se la gestione reddituale caratteristica (cioè il ciclo acquisti/trasformazione/vendita) ha generato nuove risorse finanziarie oppure le ha assorbite. Questa è una grandezza economica simile al MOL (Margine Operativo Lordo). Il secondo indicatore, invece, rettifica il calcolo precedente considerando anche le effettive entrate monetarie e le effettive uscite monetarie (considerando quindi anche l’influenza delle dilazioni di pagamento).
A mio avviso, il rendiconto finanziario è un’opportunità per gli imprenditori che, attraverso di esso, acquisiscono consapevolezza nella gestione del denaro. Il rendiconto finanziario, documento che ritengo fondamentale, diventa obbligatorio solo per le imprese di maggiori dimensioni. Le imprese che per due esercizi consecutivi superano almeno due di questi tre parametri: • numero dipendenti maggiore di 50; • totale ricavi maggiore di 8,8 milioni di euro; • totale attivo maggiore di 4,4 milioni di euro. L’analisi del rendiconto finanziario si inserisce nel quadro più ampio degli adeguati assetti previsti dall’art. 2086 del codice civile.
Implementando il rendiconto finanziario all’interno dell’azienda, l’imprenditore ha finalmente fatto chiarezza sulle cause che hanno originato tensioni di liquidità. Ora occorrerà, però, spostare il focus dall’analisi dei dati storici (backward looking) all’analisi dei dati prospettici (forward looking). Proiettando il rendiconto finanziario a livello prospettico, si parlerà di budget di tesoreria. La capacità di generare flussi di cassa operativi adeguati, in grado di onorare nei successivi 12 mesi il rimborso dei finanziamenti, viene sintetizzato dal DSCR, indice principe nelle attuali valutazioni bancarie.
Il rispetto dei periodi di guida e riposo ed il corretto uso del tachigrafo, come previsto rispettivamente dal Reg. 561/2006 e 165/2014, richiedono conoscenze sia da parte del conducente che dell’impresa, nonché responsabilità in capo a entrambi i soggetti (soprattutto all’impresa). I principali obblighi delle imprese di trasporto in materia di periodi di guida e riposo e di uso del tachigrafo sono:
art 10 comma 2 del Reg 561/06: prevede che le imprese di trasporto devono organizzare l’attività dei conducenti in modo che essi possano rispettare le disposizioni, fornire opportune istruzioni ed effettuare controlli regolari (almeno in occasione dello scarico dei dati dalla carta tachigrafica) atti a garantire il pieno rispetto delle regole tramite evidenze oggettive;
art. 33 Reg. 165/2014 stabilisce, anche in questo caso, formazione e istruzioni sul buon funzionamento dei tachigrafi (digitali o analogici) nonché l’effettuazione di periodici controlli tesi a verificare il corretto uso dell’apparecchio. Questa norma prevede altresì la conservazione dei dati in ordine cronologico e in forma leggibile per almeno 1 anno, oltre l’obbligo di fornire i dati ai conducenti che lo richiedono;
DM 31.03.2006 fissa invece le modalità di conservazione e trasferimento dati dal tachigrafo digitale introdotto dal Reg 2135/98. In particolare, stabilisce che lo scarico dei dati dalle carte del conducente (massimo 28 giorni) e dai veicoli di proprietà o presi in locazione (massimo 3 mesi) devono essere trasferiti e conservati in sicurezza su un supporto dati esterno che ne garantisca l’inalterabilità e la conservazione nel tempo avendo cura di predisporre almeno un’ulteriore copia di salvataggio. Tali dati devono essere disponibili e messi a disposizione delle Autorità preposte ai controlli. Questa norma prevede inoltre che le suddette operazioni di scarico devono essere eseguite immediatamente prima della cessione del veicolo ad altra impresa, in caso di sostituzione dell’apparecchio oppure prima che il conducente lasci l’impresa o prima della scadenza della carta tachigrafica.
Le sanzioni ai conducenti sono stabilite dal Codice della Strada, in particolare dall’art. 174, 178 e 179. Questi articoli prevedono la corresponsabilità anche dell’impresa di trasporto. In particolare:
per l’inosservanza dei periodi di guida, di riposo, delle interruzioni alla guida o per mancata conservazione incompleta o alterata dei dati fanno scattare le disposizioni previste dall’art. 178 comma 13 che prevedono una sanzione pecuniaria da 333 euro a 1.331 per ciascun dipendente;
per la circolazione con tachigrafo o limitatore di velocità mancante, manomesso o non funzionante, l’art. 179 comma 3 prevede invece una sanzione amministrativa, sempre a carico dell’impresa da 831 euro a 3.328.
L’impresa di trasporto ha la possibilità di non essere sanzionata se dimostra di aver rispettato tutti gli obblighi (pianificazione trasporti compatibili con il rispetto delle normative, precise istruzioni e controlli regolari con eventuali contestazioni). Particolare attenzione va data allo scarico dati tachigrafici e alla relativa conservazione che spesso, per dimenticanza o superficialità, non vengono scaricati o conservati in maniera puntuale, con rischio di assenza o perdita dei dati andando incontro ad elevate sanzioni. I controlli su strada sono eseguiti dalle forze dell’ordine che possono verificare fino a 28 giorni di calendario precedenti alla data del controllo (dal 31.12.2024 il controllo si estenderà fino a 56 giorni). In caso di impossibilità di analisi sul posto, l’organo accertatore ha la possibilità di notificare le eventuali violazioni al conducente e all’obbligato in solido entro 90 giorni; in questa circostanza deve essere redatto un verbale di acquisizione dei dati. I controlli possono essere effettuati anche dall’Ispettorato del Lavoro. In questi casi, i controlli potranno estendersi fino a 1 anno e riguardare uno o più conducenti. In presenza di violazioni che prevedono anche la decurtazione dei punti, l’Ispettorato del Lavoro segnalerà all’organo di polizia il fatto al fine della successiva decurtazione dei punti dalla patente di guida/cqc dove permane la regola di max 15 punti nel medesimo controllo. In linea generale, per molte contestazioni può essere proposto ricorso alla Prefetto oppure al Giudice di Pace territorialmente competenti rispettivamente entro 60 giorni e 30 giorni. Il ricorso al Giudice prevede invece un costo in base al valore della contravvenzione ma anche la convocazione in udienza per esprimere le proprie ragioni.
Un passo – anzi un passettino – dopo l’altro, il credito d’imposta del 28% calcolato sugli acquisti di gasolio del primo trimestre 2022 si avvicina sempre di più – anche se molto lentamente – ai portafogli degli autotrasportatori. Al termine di un mese di agosto fitto di contatti tra i tecnici delle associazioni di categoria e quelli dell’Agenzia delle Dogane che hanno prodotto 145 FAQ di chiarimento, distribuite in tre comunicazioni della medesima Agenzia, è stato deciso che dalle ore 15, di lunedì 12 settembre sarebbe stata attiva la piattaforma sulla quale le imprese possono chiedere il ristoro, presentando le fatture per l’acquisto del gasolio emesse nel primo trimestre dell’anno. Ne possono beneficiare – vale la pena ricordarlo – le imprese italiane di autotrasporto in conto terzi iscritte all’Albo degli autotrasportatori e al REN attive con veicoli di massa pari o superiore a 7,5 tonnellate e motori diesel di categoria Euro V o superiore, ma la singola impresa non può ottenere più di 400 mila euro, un de minimis rialzato per la circostanza dall’Unione europea alla luce dell’eccezionalità della situazione.
Applicabile alle scadenze di metà novembre
Dal momento che la piattaforma resterà aperta fino al 19 ottobre e che ci vorrà qualche altro giorno per atti di burocrazia varia, la scadenza fiscale più probabile per poter applicare il credito d’imposta appare quella dei pagamenti di metà novembre. Non dovrebbero esserci problemi neppure sulla copertura: i 496 milioni di euro stanziati alla bisogna dovrebbero coprire tutte le richieste, visto che – come hanno più volte ribadito i funzionari dell’Agenzia delle Dogane nel corso degli incontri con le associazioni di settore – sono stati calcolati sulla base dei consumi reali registrati negli esercizi precedenti per lo sconto delle accise. Malgrado tali rassicurazioni, però, in tanti a partire dalle ore 15 del 12 settembre hanno provato a presentare istanza, riscontrando insormontabili problemi nell’accesso. Dopo qualche giorno di nervosismo, la stessa Agenzia ha dovuto ammettere che effettivamente nel sistema informatico c’erano delle anomalie, che si manifestavano soprattutto mostrando un messaggio di allarme che inibiva l’accesso anche a chi disponeva dei requisiti necessari. Ma al di là di questi «incidenti di percorso», utili comunque a mettere a dura prova la tenuta del sistema nervoso degli autotrasportatori, le associazioni dell’autotrasporto hanno sempre definito la soluzione «credito di imposta» come un «successo». Così ha fatto Sergio lo Monte, segretario generale di Confartigianato Trasporti, sottolineando tre caratteristiche positive della misura: è cumulabile con altre agevolazioni; non concorre alla formazione del reddito d’impresa; se non si riesce a esaurirlo in questo esercizio fiscale, si può riportare alle scadenze successive. E, d’altra parte, le imprese potranno ritenersi soddisfatte anche dell’entità del ristoro: considerando che fino al 21 marzo lo sconto per le accise è stato già pagato e ipotizzando che incidesse (come sembra probabile) per 100 milioni di euro al mese, è come se quei 500 milioni andassero a coprire il mancato sconto per le accise (assorbito da quello generalizzato di 30 centesimi al litro per tutti) per altri cinque mesi e dunque fino a tutto agosto. Da settembre in poi, però, la questione si sta riproponendo: prolungato lo sconto generalizzato fino al 17 ottobre, si è tornati alla parità di trattamento fra i veicoli più ecologici e i veicoli esclusi dallo sconto sulle accise perché di classe inferiore agli Euro V.
Qualcosa da mettere a punto
Eppure, qualche codicillo da mettere a punto rimane, tanto è vero che gli incontri fra associazioni e Agenzia delle Dogane continuano. Lo stesso Paolo Uggè, presidente di FAI-Conftrasporto, quando il ministro per le Infrastrutture e la Mobilità sostenibili, Enrico Giovannini, aveva firmato il decreto attuativo, lo scorso luglio, pur esprimendo soddisfazione aveva avvertito: «Ora si apre la fase di confronto sulle regole, tutt’altro che secondaria». C’è stato, per esempio, il problema delle società di noleggio delle imprese di autotrasporto, una pratica sempre più frequente tra le aziende strutturate che creano al loro interno società ad hoc alle quali intestare i veicoli da impiegare nei loro trasporti. In un primo tempo era richiesto il contratto registrato comprovante la disponibilità del mezzo, ora – dopo una lettera del segretario generale di Assotir, Claudio Donati, al ministro Giovannini – la disposizione è stata attenuata: basterà una documentazione qualunque che dimostri l’effettiva vigenza del contratto di locazione nel periodo per il quale si chiede il ristoro.
Il decreto per l’AdBlue
Intanto è arrivato l’atteso decreto ministeriale per compensare i maggiori costi sostenuti dalle imprese per l’acquisto dell’AdBlue, l’additivo indispensabile per il funzionamento dei veicoli diesel con catalizzatore SCR, praticamente tutti i più ecologici: in giro ce ne sono quasi un milione e mezzo, 300 mila dei quali con portata superiore ai 35 quintali. Legato alla produzione del metano, il prezzo dell’additivo è quadruplicato, passando dai 6 ai 25 euro per 10 litri dello scorso marzo, una quantità – per intendersi – sufficiente a percorrere intorno ai 5 mila chilometri. Dal momento che quando si esaurisce l’AdBlue, il motore subisce un drastico taglio della coppia, è evidente che l’additivo è vitale per gli autotrasportatori più sensibili ai temi ambientali e che, in assenza di un sostegno economico, verrebbe favorita la circolazione dei veicoli più inquinanti. Per far fronte a questa situazione il governo, il 1° marzo scorso, aveva stanziato nel decreto legge Bollette-Energia 29,6 milioni di euro per un credito d’imposta del 15% sugli acquisti dell’additivo effettuati nel 2022, cumulabile con il sostegno per il gasolio e non concorrente alla formazione del reddito d’impresa, ma con un tetto da definire (l’ipotesi è di 500 mila euro per impresa). Il decreto legge era stato convertito in legge il 26 aprile. Il decreto ministeriale è stato firmato dal ministro Giovannini lo scorso 7 settembre. Di questi tempi meno di cinque mesi per la burocrazia è la velocità di un razzo. Ma adesso bisogna attendere il decreto direttoriale che definirà termini e modalità per la presentazione delle domande. Anche in questo caso si prevede la creazione di una piattaforma informatica e, dunque, l’avvicinarsi di un clic-day, senza sapere – almeno al momento – se in questo caso la copertura sarà sufficiente per accontentare tutti o se bisognerà mettersi in coda davanti al computer per arrivare prima degli altri.
Problemi per il gas
Lo stesso decreto Energia-Bollette aveva approvato un altro credito d’imposta (del 20%) per sostenere le imprese colpite dagli esorbitanti aumenti dei carburanti, cercando di compensare gli aumenti del costo del metano liquido o gassoso, utilizzato – secondo una ricerca di Unrae veicoli industriali – dal 3% dei mezzi al di sopra delle 3,5 tonnellate di portata e, dunque, da circa 20 mila veicoli merci. Non moltissimi, ma «virtuosi» per aver scelto un carburante a basso impatto ambientale il cui impiego era in netta crescita, anche per il basso costo, fino agli ultimi aumenti: a marzo, poco dopo l’inizio del conflitto in Ucraina, il prezzo del gas alla pompa era cresciuto di otto volte, arrivando a toccare i 2,7 euro al chilo. A cinque mesi dal varo del decreto, tuttavia, del provvedimento ministeriale che dovrebbe dettare le modalità di richiesta si sono perse le tracce. La pratica dovrebbe essere ancora ferma a Bruxelles in attesa di chiarimenti che sarebbero stati richiesti al nostro ministero delle Infrastrutture e della Mobilità sostenibili. Nel frattempo, ad agosto, il prezzo del metano alla pompa ha superato i 4 euro al chilo.
Aspettando il nuovo governo
E mentre i prezzi salgono, le elezioni si avvicinano e l’impressione è che la patata bollente del costo dell’energia, in tutti i suoi aspetti – autotrasporto compreso – sia considerato sempre di più, soprattutto dalla burocrazia, un problema del prossimo governo. E, di fronte alla lentezza con cui si muove l’amministrazione, c’è chi mette le mani avanti. «Io sono come San Tommaso», mormora Patrizio Ricci, presidente di CNA-Fita, «se non vedo i soldi sul conto corrente non credo». Perché, alla fin fine, la chiave è sempre quella: i soldi. «Se le imprese vengono strangolate dai costi del carburante, il rischio di proteste di piazza si fa sempre più concreto», argomento Ricci. «Nel protocollo firmato a marzo», ricorda ancora, «c’erano una serie di regole. Ma in questa situazione, con il prezzo del gasolio alle stelle, se non vogliono darci le regole, ci diano i soldi. Traduco: se non vogliono dare alla testa, diano almeno alla pancia».