Si scrive «mare», ma si legge sempre «container». È una sorta di dislessia di cui soffre il nostro trasporto marittimo e più in generale il nostro sistema logistico. Non tanto perché il container non viaggi per mare, ma perché, come ripete frequentemente il direttore generale di Confitarma, Luca Sisto, ci dimentichiamo dell’esistenza del traffico ro-ro, quello effettuato con mezzi rotabili che salgono e scendono dalle navi e che quindi – sottolinea – «stabilisce un incontro intermodale naturale, che non necessita cioè di grandi e costose gru, ma concede soddisfazione economica alla flotta italiana di traghetti, che è leader a livello mondiale». Una dimenticanza grave a cui i numeri non concedono appello: rispetto a un volume di merci movimentate nei porti italiani di oltre 474 milioni di tonnellate, il traffico ro-ro arriva a 121,4 milioni e supera quello container, fermo a 115,3 milioni. Poi, per completezza, ci sono pure le rinfuse liquide (167,2 milioni) e quelle solide (59,1 milioni), anche se entrambe hanno subito lo scorso anno flessioni fino al 15%, contrariamente al traffico ro-ro cresciuto dello 0,4%, pure in un fase congiunturale in cui – come documenta il Rapporto 2024 «Italian Maritime Economy» di SRM (Intesa Sanpaolo) – tutta l’economia del mare è stata costretta a fare qualche passo indietro per “ripararsi” dalle difficoltà geopolitiche.
Il traffico ro-ro, un primato italiano
Ma non è tutto, perché questa tipologia di trasporto, estremamente coerente al nostro tessuto geografico, ricamato con tanti porti di dimensioni relativamente ridotte, ha beneficiato negli ultimi dieci anni di un’onda lunga, che lo ha fatto crescere del 56%. E comunque, seppure piccoli, questi porti quando giocano nel campionato più consono alle loro corde riescono anche a primeggiare, tanto che nella classifica dei primi 10 porti ro-ro europei del Mediterraneo ben sette 7 sono in Italia. Vale a dire in un paese che, disponendo di 8.000 chilometri di coste ed essendo, in quanto penisola, «bagnato» o «immerso» nel Mediterraneo (due termini che lo stesso Luca Sisto preferisce al più abusato «circondato», giudicato troppo evocativo di un senso di costrizione), ha potuto inventare e poi esportare le autostrade del mare. Oggi ribattezzate Sea Modal Shift e copiate – ahinoi, in meglio – da altri paesi. La Spagna, per esempio, concede incentivi straordinariamente maggiori rispetto a quelli italiani, con un rapporto di 1 (Italia) a 26 (Spagna). E tutto questo malgrado lungo le autostrade del mare viaggi una fetta maggioritaria (circa il 57%) dell’intero traffico ro-ro, contribuendo così ad alleggerire le autostrade d’asfalto di poco più di 2,5 milioni di camion che avrebbero emesso circa 2,9 milioni di tonnellate di Co2. Ma soprattutto – altra grave dimenticanza sul tema – le autostrade del mare hanno fornito il sostegno necessario, in un’Italia ancora economicamente disomogenea, per bilanciare i flussi nord-sud che sono per forza di cose maggiori nel discendere la penisola e inferiori a salire.
Un successo nazionale in parte parallelo a quello del ro-ro emerge nello Short Sea Shipping, quello cioè di corto raggio, nel quale l’Italia è il primo Paese in Europa per volume di merci movimentate, pari a 305 milioni di tonnellate, con una quota di mercato superiore al 17% del totale, davanti a Paesi Bassi (16%), Spagna (13%) e Germania (9%).
Problemi da rimuovere, a partire dalle attese
Per consolidare questo primato settoriale, che almeno in parte compensa la distanza che mantiene dalle nostre coste il 50% del trasporto container, ci sarebbe bisogna di:
– più infrastrutture al servizio dell’intermodalità;
– vie di comunicazione adeguate ad aggirare le strozzature di quella portualità (ed è tanta) insediata praticamente in contesti cittadini;
– fondali più profondi per riuscire ad accogliere navi sempre più grandi.
Ma soprattutto servirebbe rimuovere quei colli di bottiglia spesso burocratici e spesso procedurali, che rendono le attese nei nostri porti più lunghi rispetto a quelli di altri paesi. Un fattore di improduttività che finisce per minare la competitività del comparto. I numeri SRM al riguardo sono impietosi: se sui container il tempo medio di attesa è solo leggermente superiore a una media calcolata in riferimento a Paesi Bassi, Germania e Spagna, sui prodotti liquidi e secchi accumula tempi di movimentazione di banchina doppi o addirittura tripli rispetto a questi tre Paesi.
QUANDO SI ATTENDE IN BANCHINA
Fonte: SRM su UNCTAD