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10-20%: è l‘ammontare dei dazi promessi da Trump all’UE. Ma MSC non ci crede

Gli Stati Uniti sono un paese che importa tanto, ma esporta molto meno. A Trump tutto questo non piace e così per cercare un bilanciamento minaccia di innalzare i dazi sui prodotti di paesi a maggior deficit commerciale. Ma non è detto che poi lo farà. E anche MSC, che inaugura un collegamento Genova-New York con un transit time di solo 9 giorni, non lo reputa molto possibile

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Dalla globalizzazione al protezionismo la strambata è violenta. Eppure è quella che paventa praticamente ogni giorno Donald Trump. Consapevole, infatti, che il suo paese importa tanto ed esporta poco, il nuovo presidente degli Stati Uniti, vorrebbe ristabilire un equilibrio imponendo un aumento dei dazi – dall’attuale 2-3% medio fino a un 10% o a volte anche un 25% – ai paesi che creano un deficit importante, stimato oltre i 1.100 miliardi di dollari sulla bilancia commerciale

Ma è veramente così? Proviamo a rispondere usando il più possibile dei numeri. 

Innanzi tutto chiariamo un aspetto: Trump indica un dazio differenziato per ogni singola area del mondo, calcolandolo sulla base della bilancia commerciale esistente tra questa e gli USA. Rispetto all’Unione Europea la quantificazione del dazio dovrebbe essere tra il 10 e il 20%. Nel 2023 – sono dati Eurostat – i paesi dell’UE hanno esportato negli Stati Uniti merci per un valore complessivo di 503,8 miliardi di euro e ne hanno importate per 347,1 miliardi. In questo modo hanno creato un surplus commerciale di quasi 157 miliardi di euro, che però nei calcoli dell’amministrazione americana sale a 193,5 miliardi di euro. Più in generale si può affermare che ogni 10 euro esportati oltre i confini dell’UE, 2 prendono la direzione degli Stati Uniti. In senso opposto viaggia meno merce, non fosse altro perché la fetta più grande della torta di import proviene dalla Cina, lasciando agli USA appena il 14%.

Ovviamente parliamo di medie. Prova ne sia che il deficit commerciale è generato soltanto da 7 paesi su 27. E al vertice di questo settetto si trova la Germania con le sue auto e la sua industria chimica, i Paesi Bassi, per via dei terminal petroliferi e delle infrastrutture portuali e l’Italia, con il suo vino, l’olio, l’abbigliamento e tanti prodotti alimentari (pasta in testa).

Per la precisione il nostro export verso gli Stati Uniti ha un valore di 66 miliardi, generando un surplus di 39 miliardi, valori che lo collocano comunque al di sopra della media UE, visto che paese guidato da Trump è destinato il 22% delle vendite extra-Ue, a fronte del 19,7% medio europeo. Rispetto ai territori di partenza è la Lombardia il principale motore di esportazioni (14%), seguita a ruota dall’Emilia Romagna (10,4%) e dalla Toscana (9,1%).

Fin qui abbiamo parlato di merci. Perché se si approccia il discorso dal punto di vista dei servizi – quelli di trasporto aereo o marittimo, di telecomunicazione, finanziari, di diritti di licenza – il rapporto si inverte. Secondo Eurostat, l’UE ha registrato un deficit nella bilancia dei servizi pari a 104 miliardi di euro. E la spinta verso l’alto proviene in particolare dall’Irlanda, paese in cui trovano sede le filiali europee dei grandi gruppi digitali americani, che versano royalties alle loro società madri negli Stati Uniti.

Ora è evidente che se Trump introducesse dei dazi, l’Europa e l’Italia potrebbero subire non poche conseguenze. La Commissione europea in particolare ha calcolato una perdita di 54 miliardi di euro in export. E siccome la quota italiana sull’export europeo pesa per il 13%, la stima dei nostri danni ammonterebbe a circa 7,1 miliardi. Si tratta anche qui di un valore medio, nel senso che un po‘ tutti gli istituti di ricerca hanno prodotto più scenari partendo da un livello di dazi vicino al 10% (ipotesi che farebbe derivare una contrazione di 3-4 miliardi) per arrivare poi al 20%, quando la perdita potrebbe anche superare i 10 miliardi. E ovviamente se veramente tutta questa massa di export venisse meno, anche la domanda di trasporto e di logistica sottostante sarebbe cancellata.

Ma sono soltanto ipotesi, scenari nefasti semmai quanto prospettano da Trump dovesse veramente attuarsi. Ma sarà veramente così? Antonio Spinelli, responsabile logistica di Latteria Soresina, minimizza: «Il commercio mondiale, ormai, è troppo interconnesso. Non reputo possibile, almeno su scala allargata, un ritorno indietro su questo piano». E anche le indicazioni che arrivano da Bruxelles vanno un po’ nella stessa direzione, ricordando che in effetti anche se Trump risparmiasse l’Europa dai dazi, ma li imponesse a qualche altro paese, in ogni caso si produrrebbero degli scompensi. E non è detto che questi, poi, finirebbero per rimbalzare all’indietro, producendo conseguenze opposte a quelle a cui gli Stati Uniti miravano. 

Un esempio? Consideriamo il caso dell’industria hi-tech, quella che di fatto produce il maggior riequilibrio nella bilancia commerciale americana. E proprio questa industria – sottolinea a Materia Rinnovabile Lucia Tajoli, docente di Politica Economica al Politecnico di Milano – «prospera in un mercato globale aperto e interconnesso. Limitarsi al mercato interno degli Stati Uniti porrebbe sfide significative, poiché è proprio questo panorama globalizzato ad aver alimentato il suo successo. In parole povere, ritirarsi nel protezionismo danneggia tutti nel lungo periodo».

Tanti altri osservatori, poi, sostengono che in realtà Trump finge di colpire su un lato per ottenere risultati su altri. Esemplare in tal senso il suo esordio nella politica di dazi, mirato a colpire con percentuali del 25% il Messico e il Canada e poi bruscamente sospeso per trovare forme di bilanciamento – evidentemente per lui più interessanti e forse anche più praticabili – da ricercare nelle politiche migratorie.

Senza considerare, poi, che spesso i dazi in un mondo interconnesso inducono a movimenti centrifughi. Sulle pagine de La Tribune, per esempio, Stéphane Auray e Aurélien Eyquem, professori rispettivamente alla Rennes School of Business e all’Università di Losanna, hanno ricordando come già nella prima presidenza Trump, quando i prodotti cinesi vennero colpiti da dazi, alcune aziende – come la Man Wah – spostarono parte della produzione in Messico, dimostrando per un verso «l’incapacità delle imposte differenziate di contenere i flussi commerciali» e, per un altro, l’alta probabilità che «determinino una riorganizzazione delle catene di fornitura».

Inoltre, anche il deficit commerciale che si vorrebbe colmare, secondo i due accademici non dipende completamente dallo squilibrio tra import ed export. «La percezione dei titoli di Stato americani come un porto sicuro – sostengono Auray e Eyquem – e l’attrattiva degli investimenti oltreoceano rendono inefficaci gli sforzi per ridurlo, perché consentono alle aziende statunitensi di acquistare senza sforzo più di quanto producano».

Infine, c’è anche chi sostiene che in definitiva queste misure, almeno per diversi prodotti italiani ed europei, potrebbero rivelarsi ininfluenti. Al riguardo Eric Dor, direttore degli studi economici presso la IESEG School of Management, fa notare che la maggior parte dei beni esportati da questi paesi – automobili tedesche di lusso o farmaci italiani molto costosi – «sono prodotti di fascia alta solitamente acquistati da individui relativamente ricchi». Quindi, sono anelastici, nel senso cioè che la domanda non è influenzata in modo significativo dalle variazioni di prezzo.

Ma forse a indurre a pensare che i dazi prospettati non ci saranno o comunque produrranno conseguenze meno importanti da quelle ipotizzate, è la notizia che MSC, terminato l’accordo 2M VSA con Maersk, ha messo in piedi una rete indipendente – chiamata Medusec – per ottimizzare gli scambi Est/Ovest, tramite 11 collegaenti transatlantici. Esemplare di tale ottimizzazione è proprio la creazione di un nuovo collegamento diretto Genova-New York con cui il gruppo guidato dalla famiglia Aponte promette un transit time senza precedenti: appena 9 giorni. Meno rispetto agli 11 di Livorno, molti meno rispetto ai 14 di Napoli o ai 17 di Gioia Tauro. Dietro una tale conquista c’è una riorganizzazione delle rotte e in particolare l’eliminazione degli scali di Barcellona e di Sines dal Medusec, due tappe che saranno associate a un’altra tipologia di servizio, definito Emusa e finalizzato alle connessioni con la costa Est degli Stati Uniti.

Per Genova potrebbe essere una importante opportunità. Dalla sua, come al solito, ha i numeri. Il capoluogo ligure, infatti, stando al sondaggio condotto da Contship Italia e SRM, è il porto di imbarco preferito per l’export dal 47% delle imprese manifatturiere di Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna che fanno ricorso a più scali (seguito da La Spezia con il 29% e da Ravenna con il 28%). Sull’import, invece, si piazza al secondo posto (29%), preceduto dal porto di Ravenna. La cosa interessante è che in export i mercati di destinazione guardano per il 33% al Nord America (33%), con una fetta considerevole (25%) diretta verso gli Stati Uniti. E se MSC scommette su un servizio di questo tipo evidentemente avrà fatto i suoi calcoli. Con e senza dazi.

Daniele Di Ubaldo
Daniele Di Ubaldo
Direttore responsabile di Uomini e Trasporti

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