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Ennio Cascetta, presidente Tecne: «La guida assistita? È già possibile attrezzare i camion»

Per il numero della società di ingegneria del gruppo Autostrade per l’Italia, l’apporto degli Adas è molto avanzato nel mondo automotive. Ciò rappresenta un potenziale disruptive molto alto, anche nel campo delle merci come con il platooning con un notevole risparmio di energia, ma rispetto alle auto, i mezzi pesanti sono indietro perché manca l’obbligo normativo all’introduzione di sistemi e dispositivi di guida assistita

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È una stagione bellissima per essere dei logistici e degli ingegneri. Stiamo vivendo la settima rivoluzione dei trasporti. Seppure dovremo superare alcuni aspetti controversi, sarà come la marea: non riusciremo a contenerla e porterà inevitabilmente a un efficientamento delle attività produttive».

Definire esperto dei trasporti Ennio Cascetta è un po’ riduttivo: da oltre trent’anni osserva il settore da angolature diverse. Professore di pianificazione dei sistemi di trasporto alla Federico II di Napoli da metà degli anni 80, e docente al MIT di Cambridge (Usa), è stato assessore ai Trasporti della regione Campania con la giunta Bassolino, coordinatore della Struttura Tecnica di Missione del ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti, presidente di RAM (società in house del ministero), ha pubblicato molta letteratura scientifica, ha partecipato alla redazione di quattro piani per i trasporti e le infrastrutture (il primo nel 1986) e da qualche anno è presidente di Tecne, società di ingegneria del gruppo Autostrade per l’Italia che vanta il secondo esercito di tecnici del Paese, dopo quello di Fs. «Stiamo inventando una nuova ingegneria, quella per la rigenerazione delle infrastrutture ormai obsolete: la sfida è lavorare chiudendo parzialmente al traffico. Puntiamo sulla sicurezza: anche le smart road e la guida autonoma devono avere come obiettivo principale quello di garantire passeggeri e lavoratori.

Professore, partiamo dalla sua ultima fatica: il «Diario di un viaggio nei trasporti e non solo» edito da Rubettino, in cui parla dell’importanza della pianificazione. Di cosa avrebbe bisogno attualmente il nostro sistema di trasporto delle merci?

La mobilità delle persone e delle merci va vista come un sistema interconnesso, fatto di diversi elementi che si influenzano. Quando parliamo di logistica, dobbiamo considerare diversi aspetti: le infrastrutture, le norme, ma anche l’attività delle aziende produttrici di servizi di trasporto e di beni. Le decisioni di ognuno di questi attori influenzano i risultati complessivi del sistema logistico del Paese. C’è una concatenazione di processi che spesso viene sottovalutata: si pensa a problemi singoli, senza guardare l’insieme. Occorre invece una visione complessiva per tutta la logistica che è un sistema unico e complesso.

Chi dovrebbe avere questa visione complessiva?

Un pianificatore illuminato. Ci sono stati esempi in questo senso, come il piano “Connettere l’Italia” realizzato dal ministro Graziano Delrio.

Che cosa succede ai piani? Lei descrive la sindrome di Penelope …

Succede che si cambia governo o amministrazione e si ricomincia tutto daccapo, mettendo in discussione le scelte e le politiche precedenti. Da una parte abbiamo un sistema che ha bisogno di una visione di lungo periodo, ma d’altro – a causa della sindrome di Penelope – scontiamo una assoluta mancanza di continuità nel tempo per le politiche da portare avanti.

Quali potrebbero essere le soluzioni?

Possiamo fare alcune cose. In primis, dare stabilità ai governi e, in particolare, alle amministrazioni. Con un arco temporale di 5-10 anni è possibile avere un periodo di tempo sufficientemente lungo per radicare un piano e renderlo difficilmente modificabile. È quello che è avvenuto in diverse regioni e città italiane. La seconda cosa è la capacità di concepire il piano in modo moderno, evitando visioni sovietiche. Nel libro lo chiamo “piano-processo”, ovvero uno scenario che consente di adattare le scelte al mutare delle condizioni, mantenendo la costanza di visione e la continuità dei progetti. Oltre alla flessibilità, serve la condivisione da parte degli stakeholders perché al cambio di linea politica sarà la società stessa a richiedere di andare fino in fondo. Una sorta di antibiotico per la sindrome di Penelope…

Un discorso che riguarda anche la digitalizzazione delle filiere logistiche. È possibile recuperare il tempo perduto?

Temo di no, almeno a livello di sistema nazionale. Prendiamo ad esempio la Piattaforma Logistica Nazionale e i Port Community Systems. Se ne parla da oltre dieci anni senza alcun risultato. Il tempo è stato perso per molte ragioni, la più importante è la mancanza di una visione condivisa con la sindrome di Penelope al cubo. Gli interessi erano molto contrastanti: ogni autorità portuale avrebbe voluto la propria piattaforma, alcune le hanno fatte, la maggior parte no. Sono stati fatti molti errori di programmazione, conditi da logiche campanilistiche. Nel mio libro dico che il nostro è il Paese delle Repubbliche marinare: ogni porto ha il suo sistema, la sua bandiera e lo Stato fatica a far riconoscere l’interesse nazionale. Forse la digitalizzazione della logistica dovrebbe partire dal basso, finanziando singoli progetti di integrazione di filiere o piatteforme per la ottimizzazione dei carichi, il monitoraggio dei percorsi e la riduzione delle emissioni. Uno schema più compatibile con le caratteristiche del nostro Paese.

Sulle autostrade è cominciata la sperimentazione della guida autonoma e delle smart road. Anche qui siamo in ritardo oppure abbiamo un problema di programmazione?

Qui siamo un po’ meno in ritardo, ma occorre cambiare marcia. Siamo di fronte alla settima rivoluzione dei trasporti, perché la mobilità delle persone e delle merci sta attraversando una serie di cambiamenti tecnologici talmente radicali, rapidi e imprevedibili che possiamo definirli rivoluzionari.

Questa rivoluzione è alimentata da tre motori: il primo è la decarbonizzazione. Per 150 anni abbiamo vissuto con sistemi fortemente dipendenti dai combustibili fossili, ora dobbiamo superarli, seppure con i tempi giusti. Credo che quelli imposti dall’Europa siano irrealisticamente accelerati anche se la transizione energetica è inevitabile. L’elettrico rimarrà probabilmente limitato alle auto e alla distribuzione urbana delle merci, i biocombustibili giocheranno un ruolo importante nella transizione per i mezzi pesanti, poi ci sarà l’idrogeno. Muoviamo passi incerti, cercando una soluzione a tentoni, in particolare per il trasporto delle merci. La seconda componente rivoluzionaria è la guida autonoma. L’apporto di assistenza alla guida nel campo dell’automotive è molto avanzato e abbiamo già delle auto in grado di guidare da sole in autostrada. Questo ha un potenziale disruptive molto alto, anche nel campo delle merci come con il platooning con un notevole risparmio di energia, ma rispetto alle auto, i mezzi pesanti sono indietro perché manca l’obbligo normativo all’introduzione di sistemi e dispositivi di guida assistita.

Serve una nuova visione politica-normativa per accelerare il processo?

Assolutamente sì. Quando ero presidente di RAM avevo proposto di incentivare il montaggio in retrofitting di sistemi ADAS di guida assistita già in commercio sui mezzi pesanti. Partiamo dal presupposto che gli autisti professionali siano più bravi dei “conducenti della domenica”, ma occorre considerare la fatica e lo stress al volante. Sono convinto che questi dispositivi possano innalzare i livelli di sicurezza nel settore e anche aiutare le aziende di autotrasporto a crescere.

Torniamo alla rivoluzione: qual è la terza componente?

È la digitalizzazione delle infrastrutture e dei servizi. Le smart road dovrebbero garantire in primis la sicurezza, mentre attualmente le sperimentazioni sono orientate principalmente verso la comunicazione, a volte usata per passare dati legati all’intrattenimento. Invece, è di gran lunga più importante, per esempio, di superare le velocità consentite o i tempi di guida o impedire a un camion sovraccarico di passare su un ponte.

Ecco un altro tema attuale: lo stato di salute del patrimonio infrastrutturale italiano. Quali interventi e quali tecnologie occorrono per elevare la sicurezza?

Anche qui siamo davanti a una rivoluzione. Dopo Genova abbiamo capito che l’Italia ha infrastrutture obsolete, costruite 50/70 anni fa e quindi alla fine della loro vita economica. La sfida che si stanno ponendo ASPI e Tecne, che è la società di ingegneria del gruppo, è come rigenerarle allungando la vita tecnica di altri cinquanta anni. Dove è possibile i viadotti si abbattono e si ricostruiscono, costa meno ed è più rapido. Spesso però non si può e si deve intervenire con parziali chiusure al traffico. Per esempio, sull’A1 costruita nel 1964, stiamo intervenendo su ponti corrosi che non hanno una garanzia di stabilità, ma grazie alla variante di valico, possiamo buttarli giù e ricostruire. In altri casi non è possibile, pensiamo al nodo di Genova e alla Liguria. Là dobbiamo intervenire senza chiudere seppure con molti disagi per la popolazione e per il traffico pesante. Aspettiamo la Gronda per dare maggiore respiro, ma bisogna agire velocemente. Stiamo inventando una nuova ingegneria, l’ingegneria della rigenerazione, che mi auguro – da professore e ingegnere – porti l’Italia a diventare un’eccellenza mondiale come è stato negli anni 60 per la costruzione delle autostrade.

Finiamo con un gioco: come sarà il mondo dei trasporti e come viaggeranno le merci nel 2050?

Difficile prevederlo: la storia ci insegna che tutte le rivoluzioni hanno portato sistemi che non si immaginavano all’inizio. Pensiamo al motore a combustione interna che ha rivoluzionato i trasporti su gomma e introdotto l’aereo. Cento anni fa nessuno poteva immaginare di possedere un’auto o di volare per andare in vacanza. Stessa cosa sarà per la guida autonoma: prima arriverà la tecnologia e poi faremo le regole per le responsabilità e altro. Se dovessi immaginare il mondo nel 2050, sicuro di essere smentito, credo che i mezzi di trasporto saranno condivisi. Voglio andare a sciare nel fine settimana? Prenoto la macchina che viene da sola a prendermi e, se voglio, guido io oppure guida lei. Per i camion immagino una cosa simile: con veicoli sempre più pezzi di una catena di montaggio esterna alla fabbrica, localizzati e connessi, con circuiti ottimizzati per servire la domanda che si genera in tempo reale attraverso piattaforme dove sarà possibile scegliere diversi servizi e tipologie di spostamenti. Voglio concludere dicendo che quella che stiamo vivendo ora è una stagione bellissima per essere dei logistici e degli ingegneri. Si tratta di una rivoluzione che, seppure con aspetti controversi, sarà come la marea: non riusciremo a contenerla e porterà inevitabilmente a un efficientamento delle attività produttive.

Redazione
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La redazione di Uomini e Trasporti

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