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Falsificare l’orario di entrata e uscita dai corsi CQC è falso ideologico

La Corte di Cassazione ha sancito che il registro presenze corsuale è un atto pubblico e che quindi Il reato in esame è da considerarsi consumato con la firma apposta su un registro già precompilato con orari non veritieri. La Corte ha poi annullato senza rinvio le sentenze dei primi due gradi, ma solo per intervenuta prescrizione del reato

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Oggi ci occupiamo di corsi di formazione – specificamente per il conseguimento della CQC – e delle regole che vanno seguite per quanto riguarda gli orari di presenza, facendo riferimento alla sentenza n. 42566 del 20 novembre 2024 della Corte di Cassazione Penale – Sezione V.

È una fattispecie che apparentemente dovrebbe avere conseguenze solo amministrative, ma che invece può portare a complicazioni addirittura penali. Ricordiamo che, in generale, secondo la normativa vigente (D.M. 20 settembre 2013), il corso di formazione deve avere una durata minima obbligatoria e la frequenza deve essere attestata su un registro vidimato dalla Motorizzazione Civile.

IL FATTO

La vicenda si svolge nell’ambito di un corso di aggiornamento professionale per il rinnovo della Carta di Qualificazione del Conducente (CQC), come ben sappiamo obbligatoria per chi esercita l’attività professionale di trasporto su strada. Durante un controllo della Polizia Stradale è emerso che gli orari di ingresso e uscita indicati sul registro non corrispondevano a quelli effettivi, perché i partecipanti avevano frequentato per meno tempo rispetto a quanto dichiarato.

I soggetti coinvolti erano la titolare e docente della scuola guida, ovvero colei che aveva compilato il registro, e quattro corsisti che avevano firmato, confermando orari non veritieri.

Nei primi due gradi di giudizio il Tribunale prima e la Corte d’Appello poi avevano condannato tutti gli indagati per falso ideologico commesso da pubblico ufficiale (art. 479 c.p.) e in concorso (art. 110 c.p.), con riduzione di pena per i corsisti grazie alla concessione delle attenuanti generiche.

LE MOTIVAZIONI DEI CORSISTI

I condannati avevano in seguito fatto ricorso in Cassazione, basandosi su diverse argomentazioni. Innanzitutto la mancanza del dolo, ovvero l’intenzione di commettere il reato. I corsisti affermavano infatti di aver firmato il registro di frequenza in modo superficiale o inconsapevole, senza accorgersi degli orari ivi riportati, oltretutto precompilati. In questo senso non ci sarebbe stato un accordo con la titolare né la consapevolezza di falsificare un atto pubblico.

Inoltre alcuni dei ricorrenti sostenevano la tesi che il registro non potesse essere considerato un atto pubblico penalmente rilevante, perché privo di alcuni elementi formali fondamentali: la mancanza della firma della docente, la non trasmissione del documento alla Motorizzazione e l’incompletezza dei dati.

Altro principio invocato quello del falso non punibile (“falsus non nocet”), ovvero un falso che non provoca danni o non è idoneo a trarre in inganno, ad esempio perché irrilevante ai fini giuridici. Anzi era stata avanzata anche l’ipotesi che non si sarebbe nemmeno trattato di un reato consumato, ma solo di un tentativo di falso, non essendo completo l’atto o non essendo stato usato in qualche modo.

Infine era stata chiesta alla Corte la non punibilità per particolare tenuità del fatto (art. 131-bis c.p.). Secondo questa tesi la falsità riguardava una sola lezione, il danno era comunque minimo, gli imputati erano incensurati e si trattava di un episodio isolato.

LA DECISIONE DELLA CORTE

La Corte tuttavia non ha avuto dubbi ed ha rigettato tutti i ricorsi, ritenendoli infondati. Prima considerazione: il registro di frequenza è un atto pubblico, poiché previsto e vidimato dalla Motorizzazione e contenente dati rilevanti ai fini del rinnovo della CQC. Anche se non firmato dalla docente, la sua attitudine a produrre effetti giuridici lo rende un atto pubblico ai fini penali. In più atti non ancora definitivi possono avere comunque valore probatorio se fanno parte di una procedura amministrativa rilevante.

In secondo luogo è sufficiente il dolo generico per il reato di falso ideologico: non serve cioè l’intenzione di nuocere, basta la consapevolezza dell’alterazione della verità. E in questo caso i corsisti erano consapevoli della falsità (avevano letto gli orari sul registro che non corrispondevano) e ne avevano tratto beneficio, in quanto avevano interesse personale a risultare presenti per più ore. Inoltre erano professionisti del settore e conoscevano bene le regole.

Terzo motivo della decisione: il reato è da considerarsi consumato con la firma apposta su un registro già precompilato con orari non veritieri. L’atto aveva cioè già le caratteristiche necessarie per influenzare l’iter amministrativo.

Infine secondo gli Ermellini non ricorrevano i presupposti per l’applicazione della tenuità del fatto, in particolare per via della consapevolezza e volontarietà della condotta, e pure l’ipotesi di falso innocuo è stata esclusa per via della funzione rilevante dell’attestazione, che serviva direttamente al rilascio della certificazione CQC e quindi era idonea a ingannare l’amministrazione. Il falso innocuo è configurabile difatti solo in caso riguardi un atto assolutamente privo di valenza probatoria, quale un documento inesistente o del tutto nullo.

LE CONSEGUENZE

Dopo tutti questi argomenti contro ci si aspetterebbe un’esemplare sentenza di condanna. Invece, sebbene i ricorsi siano stati giudicati infondati, la Cassazione ha annullato la sentenza d’appello senza rinvio per intervenuta prescrizione del reato (sette anni e sei mesi dopo i fatti, comprensivi della sospensione di 64 giorni).

Non ha però riconosciuto alcuna causa di proscioglimento nel merito, che è poi quello che ci interessa. In assenza infatti di prescrizioni di carattere temporale, il falso ideologico resterebbe e comporterebbe non solo una multa, ma anche una possibile – anche se non sicura – reclusione. Il messaggio è dunque quello di prestare estrema attenzione a cosa c’è scritto nei registri nei corsi di formazione di qualunque tipo prima di firmare, per evitare eventuali danni in sede giudiziale.

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