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Le conseguenze retributive dell’interposizione fittizia di manodopera

La Corte d’Appello di Roma ha esaminato con attenzione il rapporto tra un autotrasportatore, le cooperative interposte per cui lavorava e le società committenti, individuando un caso di illegittimità contrattuale e giungendo a una serie di interessanti conclusioni su obblighi retributivi e risarcimento del danno

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La sentenza di oggi (Corte d’appello di Roma, n. 3346/2024) è quanto mai attuale, perché si occupa di un fenomeno piuttosto diffuso nel settore trasportistico/logistico, quello dell‘interposizione fittizia di manodopera, ovvero un caso di appalto illecito tra committenti e cooperative, formali datrici di lavoro ma in effetti semplici entità interposte nei rapporti con i lavoratori.

Siamo di fronte a una questione ingarbugliata e abbastanza tecnica, per cui cercheremo di semplificarla, fornendo – speriamo – spunti interessanti per chi si dovesse sfortunatamente trovare in questa situazione.

IL FATTO

L’ autotrasportatore protagonista della vicenda aveva lavorato dal 27 maggio 2011 come autista di camion, utilizzando veicoli di proprietà di una società, mentre le distinte relative ai viaggi effettuati erano state redatte su carta intestata e con timbro di un’altra società. Poiché il rapporto di lavoro era stato però formalizzato alle dipendenze di varie cooperative, sconosciute al conducente, si era palesata un’interposizione fittizia di manodopera, ovvero un appalto e/o somministrazione illeciti tra le menzionate società (in realtà un unico centro decisionale) e le cooperative formali datrici di lavoro, le quali avevano ricoperto il ruolo di «soggetto interposto».

Il 25 febbraio 2017 il rapporto lavorativo era stato così sospeso e il nostro, il 13 marzo 2017, aveva inutilmente offerto le sue prestazioni via PEC alle predette società per costituire in modo formale un vincolo lavorativo, che avrebbe comportato un suo diritto al risarcimento del danno in misura pari alle retribuzioni perse, nonché alle differenze retributive maturate durante il rapporto.

LE RICHIESTE DEL TRASPORTATORE E LE CONTRODEDUZIONI

Il lavoratore della strada chiedeva dunque in giudizio di accertare e dichiarare di essere alle dipendenze delle due società dal 27.05.2011, con un rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato e relativo inquadramento. Inoltre di costituire e formalizzare il rapporto di lavoro con riammissione in servizio, assegnandogli le precedenti mansioni e/o equivalenti. Quest’ultima richiesta era stata rifiutata dalla committenza, per cui al giudice di primo grado veniva chiesto anche il risarcimento dei danni pari alle retribuzioni non percepite a partire dalla messa in mora del 13/03/2017 e il pagamento, in favore del ricorrente, della somma complessiva di oltre 57 mila euro a titolo di differenze retributive per le mansioni svolte, le ferie, permessi e festività e il TFR maturato.

Le società committenti si costituivano in giudizio chiedendo – in sintesi – di rigettare in quanto insussistente la domanda di accertamento e dichiarazione di interposizione fittizia di manodopera e della esistenza di rapporto di lavoro subordinato, con conseguente domanda di condanna al pagamento dell’importo di cui sopra.

LA SENTENZA DI PRIMO GRADO

Il Tribunale di primo grado decideva in modo netto a favore del camionista. In sostanza si affermava che le due società costituivano effettivamente «un unico centro di interessi» – avendo una compagine coincidente, un unico amministratore, un’identica sede, un identico oggetto sociale e utilizzando in modo promiscuo personale e mezzi di lavoro – e che esisteva dal 27.5.2011 un rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato tra il ricorrente e le convenute. Condannava quindi le società alla riammissione in servizio del lavoratore con orario full time ed inquadramento nel IV livello per il contratto dei dipendenti di imprese di autotrasporto merci, logistica e spedizioni, nonché al pagamento, in via solidale, della retribuzione maturata dal 13.3.2017 sino alla effettiva riammissione in servizio, oltre interessi e rivalutazione. Per le differenze retributive la cifra liquidata lorda al trasportatore era fissata in oltre 42 mila euro più interessi.

«È documentato che il ricorrente ha lavorato formalmente, senza soluzione di continuità, dal 27 maggio 2011 fino al 30 giugno 2017 in forza di una serie di contratti di lavoro subordinato a tempo indeterminato – si legge nella prima sentenza – e, da ultimo, a termine, per una serie di cooperative. Tali cooperative hanno stipulato con le società esistenti vari contratti di appalto dei servizi di trasporto e consegna merci, nonché di carico, scarico e movimentazione delle merci in magazzino, servizi tutti svolti con il proprio personale. Inoltre, per l’esecuzione del servizio in appalto, le cooperative hanno stipulato anche dei contratti di noleggio e comodato d’uso dei veicoli di proprietà della società. Dunque, il presente giudizio concerne l’accertamento della genuinità dei contratti di appalto in questione e la conformità a legge del rapporto di lavoro instaurato tra il ricorrente, la cooperativa formale datrice di lavoro e le società committenti, beneficiarie della sua prestazione. Ebbene, già dall’analisi dei contratti di appalto si evince che le appaltatrici non avevano una propria organizzazione di mezzi e che il servizio appaltato non era finalizzato alla realizzazione di un risultato in sé autonomo, ma era perfettamente coincidente con l’oggetto sociale delle committenti».

Inoltre l’autotrasportatore partiva e rientrava dalla sede in cui si trova la sede operativa della società; svolgeva le mansioni di autotrasportatore in relazione ai trasporti commissionati dalle società alle cooperative; utilizzava sempre gli stessi mezzi di trasporto di proprietà delle società via via concessi in comodato alle cooperative, ecc. Pertanto i contratti di appalto nascondevano un’interposizione illecita di manodopera, con la conseguenza che «il rapporto di lavoro oggetto di causa debba essere imputato a entrambe le società committenti».

Vista poi l’accertata sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato con le società convenute sin da maggio 2011 e in assenza di un valido atto risolutivo, tale rapporto deve ritenersi mai interrotto, con le conseguenze retributive che vedremo.

LA DECISIONE IN APPELLO

Le società condannate decidevano allora di ricorrere in appello, mettendo in dubbio la decisione del primo giudice, con una serie di eccezioni formali e materiali nella stragrande maggioranza smentite dal giudicante romano. Vediamo le singole questioni, focalizzandoci su quelle sostanziali e lasciando stare quelle – peraltro respinte – relative alla decadenza delle richieste o all’omessa dichiarazione della normativa applicata.

Sulla sussistenza di un unico centro d’imputazione di riferimento la Corte dava credito alla versione del Tribunale: «Il giudice di primo grado ha giustamente valutato i plurimi indizi rivelatori della c.d. codatorialità, sopra indicati, tra i quali va evidenziato quello, di sicuro significato, dell’utilizzo indistinto del personale e dei mezzi aziendali da parte dei due enti».

E nemmeno si può identificare il rapporto di lavoro come appalto di servizi, invece che di trasporto, del contratto commerciale tra le società appellanti e le cooperative formali datrici di lavoro, data la «triangolazione» della figura del datore di lavoro tra le cooperative e le società appellanti, reali beneficiarie della prestazione dell’appellato, che non era giustificata dal contratto commerciale tra di esse stipulato: le prime si erano limitate a una gestione soltanto amministrativa del rapporto lavorativo, mentre le seconde l’avevano organizzata e diretta. L’autotrasportatore, in altri termini e secondo le testimonianze raccolte in istruttoria, aveva svolto il suo lavoro sotto specifiche e puntuali direttive delle società appellanti, come fosse un diretto dipendente. Società che non hanno provato – dice la Corte – che erano le cooperative a stabilire compiti, turni di lavoro e servizi cui adibire il personale impiegato per il servizio di trasporto merci, con rischio a loro carico e con speculare esclusione di qualsiasi fenomeno d’illecita interposizione datoriale.

Sulla sospensione del rapporto di lavoro, la Corte precisa che il Tribunale lo ha ritenuto correttamente sospeso fin dal febbraio 2017 a iniziativa delle due società datrici di lavoro, con la PEC inviata dal lavoratore che le costituiva in mora dal 13 marzo 2017 (inviata correttamente contenendo la richiesta da parte del lavoratore di essere riassunto in servizio). Dalla messa in mora, secondo la giurisprudenza corrente, scaturisce un’obbligazione risarcitoria del datore di lavoro (e non retributiva), ma la Corte romana si chiede se ciò possa essere applicato anche nel caso di rifiuto del datore di lavoro di ricevere la prestazione offerta dal lavoratore, «negando la riammissione in servizio e non ottemperando all’ordine giudiziale». Si richiama quindi a una sentenza della Corte Costituzionale per cui «il danno forfetizzato dall’indennità in esame copre soltanto il periodo cosiddetto intermedio, quello, cioè, che corre dalla scadenza del termine fino alla sentenza che accerta la nullità di esso e dichiara la conversione del rapporto. A partire dalla sentenza che converte il contratto di lavoro che prevedeva una scadenza in un contratto di lavoro a tempo indeterminato, è da ritenere che il datore di lavoro sia indefettibilmente obbligato a riammettere in servizio il lavoratore e a corrispondergli, in ogni caso, le retribuzioni dovute, anche in ipotesi di mancata riammissione effettiva». Da qui il giudice di secondo grado deduce che «nel momento successivo alla declaratoria di nullità dell’interposizione di manodopera, a fronte della messa in mora (offerta della prestazione lavorativa) e della impossibilità della prestazione per fatto imputabile al datore di lavoro (il quale rifiuti illegittimamente di ricevere la prestazione), grava sull’effettivo datore di lavoro l’obbligo retributivo». Questo per evitare che i lavoratori subiscano le ulteriori conseguenze sfavorevoli derivanti dalla condotta omissiva del datore di lavoro rispetto all’esecuzione dell’ordine giudiziale, in violazione dei principi di buona fede e correttezza.

Insomma, il datore di lavoro, il quale nonostante la sentenza che accerta il vincolo giuridico, non ricostituisce i rapporti di lavoro, senza alcun giustificato motivo, dovrà sopportare il peso economico delle retribuzioni, pur senza ricevere la prestazione lavorativa corrispettiva. In altri termini, in tema di interposizione di manodopera, ove ne venga accertata l’illegittimità e dichiarata l’esistenza di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato, l’omesso ripristino del rapporto di lavoro ad opera del committente determina l’obbligo di quest’ultimo di corrispondere le retribuzioni, a decorrere dalla messa in mora.

Riassunto del ragionamento:

  • il lavoratore ha costituito in mora il datore di lavoro con PEC del 13 marzo 2017;
  • la sentenza che ha costituito il rapporto di lavoro in capo al vero datore di lavoro è del 17 maggio 2022;
  • dal 13 marzo 2017 fino al 17 maggio 2022 spetta quindi al lavoratore il risarcimento del danno, pari alle retribuzioni maturate e non percepite, detratto l’aliunde perceptum (cioè i redditi maturati dal dipendente licenziato illegittimamente);
  • dal 17 maggio 2022 spetta al lavoratore la retribuzione;
  • l’aliunde perceptum da detrarre è integrato dai soli redditi da lavoro, non anche dai trattamenti previdenziali erogati al lavoratore nel periodo di riferimento, perché questi trattamenti operano su un piano diverso dagli incrementi patrimoniali che gli sono derivati dall’essere stato liberato, anche se in modo illegittimo, dall’obbligo di prestare la sua attività.

LE CONSEGUENZE

Le società committenti sono state alla fine condannate a pagare all’autotrasportatore, per il periodo 13 marzo 2017 – 16 maggio 2022, il risarcimento del danno pari alle retribuzioni non percepite, detratto l’aliunde perceptum, mentre per il periodo dal 17 maggio 2022 le retribuzioni maturate, entrambi con la rivalutazione monetaria e gli interessi legali dalla maturazione del credito fino al saldo.

Le spese del doppio grado di giudizio per il giudizio di secondo grado sono andate per tre quarti a carico delle società appellanti (7.600 euro), compensato il restante quarto.

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