A volte per prendere decisioni assennate ci vorrebbe un governo dotato di un’intelligenza artificiale, in grado cioè di connettere dati diversi per raggiungere obiettivi apparentemente distanti dalle misure adottate. I numeri di questo mese ce lo insegnano.
Prendiamo le previsioni di UNRAE rispetto al mercato dei veicoli da trasporto per il 2025: sono abbastanza desolanti (–16,5% nei pesanti), ma potrebbero comunque essere mitigate se, invece di guardare avanti, si facesse mente locale su quanto sia aumentato il circolante negli anni passati e, quindi, su quanto le reti di assistenza potranno fatturare in ore di officina e in ricambi. In ogni caso l’associazione delle case estere chiede incentivi al governo. E fa bene, visto che i veicoli meno inquinanti costano di più e in pochi li comprano. Ma affinché questo accada l’incentivo non è una condizione sufficiente, nel senso che le imprese di trasporto acquistano camion e van se hanno contratti di servizio da onorare.
A tale scopo, allora, sarebbe utile valutare un altro dato, quello che quantifica quanto la modalità stradale abbia perso nel sostegno al nostro import/export (-13%), per la semplice ragione che tantissimo made in Italy parte dalla penisola salendo a bordo di veicoli di aziende estere. È un film che si intitola «La vittoria del franco fabbrica sul franco destino»; vanta un numero incalcolabile di repliche e ha fatto incassare alla nostra bilancia dei pagamenti riferita alla logistica un disavanzo di 9,9 miliardi di euro. Quindi, se si colmasse questa lacuna forse non soltanto il nostro made in Italy viaggerebbe anche made in Italy, ma la nostra logistica recupererebbe mercato, siglerebbe contratti e acquisterebbe veicoli.
Un settore anticiclico che invece appare particolarmente vivace e vede crescere negli ultimi sette anni sia il numero delle aziende (+12%) sia quello dei veicoli che utilizza (+32%) è quello del trasporto rifiuti. Con una precisazione utile: in questo mercato la stragrande maggioranza delle aziende – peraltro di piccole dimensioni – opera in conto proprio, vale a dire trasporta i propri rifiuti. Quindi, non compra veicoli per business e non li rinnova con molta frequenza.
Ed è un peccato, perché – dicono sempre i nostri numeri – un veicolo nuovo rispetto a uno di qualche anno fa ha una capacità di generare il fatturato necessario a ripagare il prezzo di acquisto molto più rapida, richiedendo 10 mesi invece di 14-15. E in più consuma meno, pretende meno manutenzione, viaggia con più supporti tecnologici utili a evitare il viaggio a vuoto. Insomma, il presente a volte può rivelarsi migliore rispetto al passato. Credere il contrario è un pregiudizio di cui sarebbe utile liberarsi.
Ovviamente con alcune eccezioni. E qui, purtroppo, il riferimento è di nuovo all’e-commerce. Sia chiaro, inteso come strumento di vendita ci piace: è comodo, è veloce, è efficiente. Ma un acquisto effettuato tramite interfaccia digitale poi richiede la consegna fisica della merce. E qui arriva il numero su cui riflettere: effettuare questa operazione avendo come destinazione un domicilio privato costa in media 10-15 volte in più che spedire un pallet a un negozio. Con l’aggravante che l’esercizio commerciale paga quel servizio di trasporto, mentre l’acquirente on-line il più delle volte lo ottiene gratuitamente. Senza considerare che quando arrivano le festività, gli acquisti si moltiplicano e i costi schizzano alle stelle. E quindi quel gap logistico iniziale che grava su chi si fa carico di coprire l’ultimo miglio diventa ancora più svantaggiato.
Detto diversamente: come si fa a guadagnare con un’attività che costa tanto – e in qualche stagione dell’anno anche qualcosa di più – senza chiedere un contributo al consumatore finale? Per risposte credibili, citofonare a qualche procura.