Prendete l’autotrasporto: inquinare meno non era il suo obiettivo prioritario, ma lo sta diventando per i suoi committenti, a maggior ragione se obbligati alla certificazione ESG. E quindi, da fedele fornitore di servizi, il trasportatore si adegua: impara a misurare le proprie emissioni di CO2, comprende che disporre di una flotta di vecchi catorci non lo aiuta a chiedere soldi a una banca o una captive, capisce progressivamente come fare la sua parte.
Non gli è ancora chiaro, però, quali siano i camion migliori per accontentare i suoi interlocutori:
l’elettrico in genere lo scarta perché costa troppo;
del GNL, dopo le turbolenze sui prezzi, inizia a diffidare;
dell’HVO non sa ancora se fidarsi, perché lo percepisce troppo poco viscoso.
Gli è chiaro, invece, che il diesel, così com’è (alimentato con gasolio), non potrà durare in eterno.
Quindi, se dovesse avere un cliente che necessita di più viaggi e la fortuna di trovare un autista disponibile, su quale tipologia di veicoli converrebbe investire? È un problema.
Ma non perché le alimentazioni citate potrebbero non funzionare, ma perché tutte sono esposte al rischio di essere tagliate fuori dal mercato e quindi perdere di valore nello spazio di un mattino. E per uno che acquista veicoli soltanto confidando su quanto possa valere il camion utilizzato fino a ieri, diventa un problema di non poco conto.
Il dilemma dell’autotrasportatore, senza essere un mezzo gaudio, è un male comune e anche chi produce veicoli ne è affetto. Per costoro il problema si presenta come una sorta di vicolo cieco: la normativa chiede di produrre veicoli con emissioni ridotte o azzerate e chi non si adegua rischia multe salate. Ma il mercato non gradisce questi veicoli e se, per non andare in crisi, il costruttore proponesse quelli ancora graditi con motore endotermico, incasserebbe meno di quanto dovrebbe pagare di multa. Se ne uscirà, ma con meno rigore nei tempi e con più fantasia nelle soluzioni.
Arriviamo a noi. Se state leggendo questo editoriale è probabile che abbiate in mano una rivista fatta di carta. Siatene fieri, perché appartenete a una minoranza eletta. Questo tipo di supporto, infatti, è sempre più spesso messo da parte, relegato in nicchie particolari (come quella, per fortuna, della stampa specializzata) e sacrificato sull’altare del progresso. Oggi, per dirla facile, si è moderni se si fruisce dell’informazione in modo digitale. Niente di negativo, ma bisogna verificare se tale soluzione, oltre che moderna, è anche sostenibile.
Sicuramente non lo è finanziariamente se l’informazione è considerata un accessorio dello smartphone. Per la semplice ragione che per tenere in piedi una macchina che produce notizie di qualità (vale a dire, verificate, dettagliate, prive di condizionamenti di varia natura) qualcuno la deve pagare. Lo può fare la pubblicità, ma se si assume l’onere in modo esclusivo finisce per controllare le stesse notizie, perché ha un peso condizionante nei confronti della macchina e quindi della qualità. Lo possono fare le grandi piattaforme digitali, ma a quel punto sono i loro algoritmi a decidere su cosa i singoli vanno informati.
Siamo consapevoli, però, che non basta un appello generico per smuovere coscienze, serve dimostrare nei fatti di essere qualitativi per stimolare chi legge ad abbonarsi.
Dal 2025 lo faremo in maniera attenta: rivoluzioneremo la grafica, riconsidereremo i contenuti per renderli più attrattivi e più rispondenti ai vostri interessi, cercheremo di fornirvi più modi di acquisire informazioni anche senza dover investire troppo tempo.
Faremo una rivista nuova, più bella, più interessante, più moderna. Una rivista con cui proseguire a testimoniare una presenza, a battere un ennesimo colpo dopo i quattrocento che ci siamo lasciati alle spalle. E magari con cui arrivare anche noi a provare un’emozione forte: quella di trovarsi per la prima volta di fronte a uno spazio indipendente e privo di confini. A un mare aperto, come il giovane protagonista dei Quattrocento colpi di Francois Truffaut.