Il caso che esaminiamo oggi fa riferimento alla normativa sulla prevenzione degli infortuni sul lavoro e in particolare alle norme contenute nel d.lgs. 9 aprile 2008, n. 81. Si tratta di una vicenda che purtroppo ha visto la morte della vittima, decesso che la Corte di Cassazione penale (Sez. 4 – 29 marzo 2023 – sentenza n. 13040) ha ritenuto causato dalla negligenza del datore di lavoro nel mancato adempimento delle prescrizioni che la legge prevede per garantire l’incolumità delle persone all’interno del luogo di lavoro.
IL FATTO
La storia ha inizio quando il camionista vittima, appena rientrato alla sede dell’azienda di trasporti per cui lavorava, era sceso dal suo veicolo all’interno del piazzale dell’impresa. In quel momento un altro dipendente, alla guida di un’autogrù, aveva agganciato il container alloggiato sul cassone del camion per trasferirlo nell’area stoccaggio e, andando in retromarcia, aveva investito il trasportatore, che stava passando dietro al carrello. Il camionista purtroppo era rimasto schiacciato sotto la ruota posteriore destra ed era deceduto sul colpo. Nei primi due gradi di giudizio, sia il Tribunale di Napoli che la Corte d’appello del capoluogo campano avevano condannato il titolare della ditta di autotrasporti – nonché datore di lavoro della vittima – a 8 mesi di reclusione per omicidio colposo, aggravato dalla violazione delle norme sulla prevenzione degli infortuni sul lavoro. In particolare, si accusava il titolare di «non aver predisposto, nel piazzale della ditta, adeguata segnaletica verticale e orizzontale, né altre misure o dispositivi idonei a garantire il transito e il movimento in sicurezza di mezzi e persone».
Contro queste decisioni il datore di lavoro aveva fatto nuovamente appello in Cassazione, lamentandosi che la sentenza della Corte di Appello non avrebbe tenuto in considerazione le dichiarazioni di un testimone secondo il quale le dimensioni del piazzale consentivano in ogni caso l’effettuazione di tutte le manovre in condizioni di sicurezza e assicuravano la visibilità dei mezzi e delle aree di stoccaggio. In seconda battuta, secondo il ricorrente, nemmeno erano state accolte le osservazioni dell’autista della gru che aveva spiegato come, anche dopo la predisposizione delle segnaletiche orizzontali e verticali, a seguito dell’infortunio, le modalità delle operazioni di scarico e carico dei container degli automezzi con carrello elevatore erano rimaste immutate. Infine, i giudici di secondo grado non avrebbero considerato che lo stesso consulente tecnico del Pubblico Ministero aveva segnalato la condotta colposa della vittima, che era scesa dal camion e aveva attraversato il raggio di azione del carrello elevatore in manovra di retromarcia: una condotta imprevista e imprevedibile che avrebbe interrotto il nesso di causa fra la violazione della regola cautelare imputata al datore di lavoro e l’evento. Più precisamente, nel caso di specie, le norme di sicurezza violate riguardavano la circolazione dei veicoli e le distanze tra questi ed eventuali altri mezzi o persone, ma l’autista del camion e il carrellista non potevano essere considerati pedoni e in ogni caso la vittima era stata formata e gli era stata impartita la disposizione di non lasciare la cabina dell’automezzo durante le operazioni di carico e scarico.
LA DECISIONE
La Corte Suprema non ha però ritenuto che questi argomenti cambiassero le sentenze di merito. Innanzitutto perché il ricorso in Cassazione «deve contenere la precisa indicazione delle ragioni di diritto e degli elementi di fatto da sottoporre a verifica e non può limitarsi a un generico dissenso critico sulla risposta fornita dal giudice di appello alle questioni sollevate… il ricorrente ha l’onere cioè di specificare il contenuto dell’impugnazione e di indicare i punti della motivazione censurati e le ragioni della censura… non è poi consentita la censura generica relativa a una presunta carenza o illogicità della motivazione … infine sono estranei al giudizio di legittimità l’apprezzamento e la valutazione del significato degli elementi probatori attinenti al merito».
Ma, a prescindere da questi elementi formali, la Cassazione, sulla base della ricostruzione dell’incidente operata dal primo giudice, ha ritenuto che dovesse essere confermata la responsabilità dell’imputato coi seguenti motivi:
1. sia la vittima sia il conducente dell’autogrù, al momento dell’incidente, stavano svolgendo attività lavorative nell’ambito della organizzazione del datore di lavoro, ovvero «il trasporto con il camion del container presso la sede e l’esecuzione delle successive manovre di scarico del medesimo container»;
2. il titolare della ditta ha una posizione di garante rispetto ai rischi per la sicurezza e la salute dei lavoratori, ma non aveva adottato «misure organizzative idonee a prevenire lo specifico rischio di interferenze tra le attrezzature in movimento e i dipendenti a piedi».
In questo senso l’osservazione secondo cui «le dimensioni delle vie di circolazione sono tali da non costituire pericolo» non è sufficiente. Dice infatti la Corte che «solo il posizionamento di adeguata segnalazione delle vie di circolazione nel piazzale, con strisce continue di colore ben visibile e segnaletica verticale che tenesse conto delle distanze di sicurezza necessarie tra i veicoli in circolazione ed i pedoni, avrebbe evitato che i lavoratori a piedi si potessero trovare nella zona di attività di attrezzature in movimento»;
3. l’investimento del pedone doveva, dunque, essere ritenuto conseguenza della omessa adozione delle misure cautelari che, se osservate, avrebbero evitato l’interferenza fra il carrello in movimento e il camionista a piedi;
4. il comportamento dell’autotrasportatore, che non aveva rispettato il divieto di scendere dal camion durante le operazioni di carico e scarico, non aveva interrotto il nesso di causalità, in quanto la vittima «aveva agito nello svolgimento della sua mansione» e la sua condotta era all’interno dell’area di rischio definita dalla lavorazione in corso, che il datore di lavoro era chiamato a gestire, «sicché non poteva essere considerata abnorme».
La causalità della colpa va infatti intesa – aggiunge ancora la Cassazione – come l’hanno interpretata i giudici di appello, ovvero come l‘introduzione da parte del soggetto che agisce del fattore di rischio che poi si concretizza nell’evento e questo rischio deriva dalla violazione delle regole di cautela tese a prevenirlo e renderlo evitabile.
In altre parole, l’obbligo di predisporre la segnaletica per delimitare le zone di transito dei pedoni da quelle per il transito dei mezzi era funzionale ad evitare gli urti e le collisioni fra mezzi e lavoratori, anche a fronte di eventuali condotte imprudenti delle persone addette all’area. La condotta del lavoratore deceduto non poteva essere considerata fuori dal normale e non poteva, dunque, «avere rilievo ai fini della interruzione del nesso di causa», in quanto al datore di lavoro era stato rimproverato di non avere adottato le necessarie misure di prevenzione che avrebbero impedito qualsiasi interferenza fra i conducenti dell’autogrù ed eventuali pedoni.
Resta peraltro fermo il principio per cui non ci può essere alcun esonero di responsabilità all’interno dell’area di rischio, nella quale si colloca l’obbligo del datore di assicurare condizioni di sicurezza appropriate, anche in rapporto a possibili comportamenti trascurati del lavoratore. All’interno di questa zona di rischio, la condotta del lavoratore può ritenersi abnorme – e quindi idonea a escludere il nesso di causalità tra il comportamento del datore di lavoro e l’evento lesivo – solo in due casi: quando si tratti di un rischio eccentrico, che si colloca completamente fuori dalla sfera di rischio governata dal garante, oppure quando sia stata posta in essere del tutto autonomamente e in un ambito estraneo alle mansioni affidategli – e perciò totalmente imprevedibile da parte del datore di lavoro. Nel caso di specie però la condotta del lavoratore deceduto era stata posta in essere nell’ambito delle mansioni affidate e non aveva, comunque, attivato un rischio eccentrico, «posto che le regole precauzionali che il datore di lavoro avrebbe dovuto osservare erano volte appunto a governare i rischi collegati anche a eventuali imprudenze».
LE CONSEGUENZE
Dopo questa lunga, ma ben articolata motivazione, la Cassazione ha concluso che il ricorso si limita a ripetere le stesse censure già portate in appello, ma non incide «in maniera puntuale e con critica ragionata» sugli argomenti utilizzati dalle sentenze precedenti. Ha dichiarato perciò inammissibile il ricorso e confermato la condanna del titolare dell’azienda, con in aggiunta il pagamento delle spese processuali e delle spese di costituzione in giudizio della moglie della vittima.