Ventimila o, magari, anche tanti di più. Il numero di autisti richiesto dal mercato dell’autotrasporto per evitare di tenere fermi i camion e, quindi, di non riuscire a spedire merci a destinazione è ballerino, ma comunque preoccupante. Anche perché se il presente è fosco, il futuro potrebbe diventare ancora più nero, visto che negli ultimi tempi è completamente mancato un adeguato ricambio generazionale. Insomma, servono giovani da far salire nelle cabine dei camion, ma questo obiettivo non è agevole da conseguire: le politiche pubbliche non si sono dimostrate sufficienti e le aziende spesso non vedono di buon occhio il farsi carico dei costi della formazione. Per quali motivi fondamentali? Cos’è che di fronte all’urgenza di personale, scoraggia molte aziende dall’investire sui giovani? Lo abbiamo chiesto all’avvocato Roberto Maurelli, specializzato in diritto del lavoro ed esperto di gestione del personale.
Avvocato, come si spiega la carenza di autisti in un settore dove la domanda è alta, spesso molto maggiore dell’offerta?
Le ragioni sono molteplici. Ma sicuramente c’è il dato strutturale dell’allontanamento dei giovani: nel nostro Paese, gli autisti con meno di 25 anni arrivano a stento all’1% del totale. È venuto a mancare, in sostanza, il ricambio generazionale. Ad oggi, probabilmente, è questa la vera grande criticità che si trova a fronteggiare il settore autotrasporto.
Cosa dovrebbe fare un’azienda per impostare una strategia di reclutamento efficace?
Per attenuare il problema nell’immediato, è chiaro che il bacino di forza lavoro cui attingere è quello oltre confine, soprattutto nei paesi dell’Est, che finora ha offerto una certa stabilità al settore. Ma questa ricerca, purtroppo, sta diventando sempre più difficile, poiché si sono sostanzialmente prosciugati due importanti serbatoi di reclutamento, e cioè quello rumeno e quello ucraino. Inoltre, la competizione per l’accaparramento degli autisti si traduce inevitabilmente in un incremento dei salari e, quindi, in un maggior costo per il datore di lavoro. In Italia, si calcola vi sia già stato un aumento del 10% in pochi anni. Non è un dato trascurabile.
Esistono strategie alternative, magari più lungimiranti?
Occorre investire sulla formazione dei giovani. Ma c’è un problema di fondo: non è accettabile che un’azienda, dapprima, investa tanto tempo e denaro e poi si veda “soffiare” il dipendente formato da parte di un concorrente.
Fino ad oggi si è discusso poco di questo tema. Ci si concentra di più sui percorsi formativi, sulle politiche pubbliche finalizzate all’acquisizione del CQC, sui tirocini formativi in azienda, ma poi si trascura il fatto che un datore di lavoro ha bisogno anche di poter contare sulla stabilità di quella forza lavoro, alla cui formazione ha contribuito attivamente. Altrimenti, diventano impossibili strategie imprenditoriali di lungo periodo.
Quale soluzione suggerirebbe alle aziende del nostro settore?
A mio avviso l’unico modo per salvaguardare l’investimento formativo è quello di stipulare dei patti di assunzione, stabilità e non concorrenza. Queste clausole, opportunamente combinate, consentono di evitare quello che di fatto è un vero e proprio atto di concorrenza sleale, da parte di chi ha interesse a far rassegnare le dimissioni ad una risorsa preziosa, perché già formata, al fine di assumerlo alle proprie dipendenze.
Perché ricorrere a queste clausole contrattuali? Non esiste già una tutela di matrice legale per gli atti di concorrenza sleale, a prescindere dal contratto di lavoro con il singolo dipendente?
Certo, ma, vede, il punto è che oggi la tutela legale in questo ambito è scarsa. Anche la giurisprudenza è rimasta ancorata a una nozione troppo “morbida” di storno illecito di personale. Secondo la Cassazione, perché lo storno assurga ad atto di concorrenza sleale devono sussistere una molteplicità di requisiti, tra cui, solo per citarne alcuni, lasimultaneità del passaggio di un numero rilevante di dipendenti e lavolontà di nuocere all’azienda concorrente. Anche di recente la Cassazione è tornata sull’argomento riproponendo questo medesimo approccio (per esempio, Cass. 19 luglio 2022, n. 22625).
Senonché è evidente che questi requisiti non ricorrono quando solo un paio di dipendenti vengono indotti alle dimissioni e poi assunti da terzi, oppure quando l’azienda concorrente si prefigge l’obiettivo non tanto di nuocere al concorrente, quanto di reperire effettivamente una risorsa umana per rafforzare il proprio organico.
Molto interessante. Potrebbe spiegarci, in concreto, come dovrebbe comportarsi il datore di lavoro?
Come anticipavo, se non ci si può fare giustizia attraverso il rimedio giudiziale della concorrenza sleale, occorre cautelarsi sul piano della gestione del singolo rapporto, fin dalla sua fase genetica.
Innanzitutto, occorrerebbe predisporre un contratto preliminare di assunzione, in cui il giovane si impegna a stipulare il contratto di lavoro definitivo con l’azienda che gli ha pagato e/o impartito la formazione, consentendogli di ottenere il CQC.
Il contratto definitivo richiamato dal preliminare, a sua volta, dovrebbe contenere un patto di stabilità, e cioè un impegno del neoassunto a non dimettersi se non nei casi strettamente necessari, e cioè quelli riconducibili alla nozione di giusta causa di recesso, come, ad esempio, il mancato pagamento della retribuzione.
Inoltre, potrà essere previsto un patto di non concorrenza per il periodo successivo all’eventuale cessazione del rapporto, stabilendo un divieto di prestare attività lavorativa alle dipendenze di aziende del medesimo settore, operanti nello stesso territorio, per un periodo fino a tre anni.
Cosa succede se il dipendente, dopo aver firmato, viola gli accordi presi e va a lavorare presso un’azienda concorrente?
La domanda è più che legittima. La risposta è molto semplice: la violazione di tutti gli obblighi che abbiamo descritto in precedenza può essere sanzionata con una penale risarcitoria, da quantificarsi forfettariamente quantomeno nella misura del costo sostenuto per la formazione, ma io suggerirei anche qualcosa in più.
In tal modo, non appena si verifica la violazione, il datore di lavoro può procedere immediatamente con un’ingiunzione di pagamento, senza dover incardinare un giudizio ordinario di cognizione, con i maggiori tempi e costi tipici di questo binario processuale.
Tutto ciò ferma restando, comunque, la possibilità di agire per il risarcimento del maggior danno con i rimedi tradizionali messi a disposizione dall’ordinamento.
Per eventuali approfondimenti e richieste,
l’avv. Roberto Maurelli è disponibile ai seguenti contatti:
email: r.maurelli@studiolegalecarlopisani.it
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