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Esterovestizione, l’accertamento della residenza in Italia prescinde dallo scopo di voler aggirare una norma

Secondo la Cassazione - che ha giudicato su un'azienda di autotrasporto slovena, ritenuta però esterovestita - sono legittimi gli avvisi di accertamento ai fini delle imposte dirette e dell’Iva notificati a una società di autotrasporto che la Guardia di Finanza ritiene soggetto occulto, indipendentemente dal fatto che vi sia stato o meno l'abuso di diritto

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L’argomento di oggi riguarda l’esterovestizione, ovvero il caso di una società che simula di essere residente all’estero per non essere assoggettata alla tassazione italiana. In generale, per il diritto, si presume che la società sia sempre residente in Italia, a meno che non fornisca prova contraria. Va anche sottolineato come il trasferimento della propria attività in un altro Stato, di per sé, non implica un comportamento elusivo e abusivo. Perché si abbia abuso del diritto di stabilimento, occorre infatti verificare se il trasferimento è stato reale oppure se l’operazione sia stata artificiosa, prevedendo la costituzione di una forma giuridica che non corrisponde alla realtà economica. Andranno identificati inoltre il luogo in cui sono prese le decisioni strategiche per la società e quello dove è prevalentemente svolta l’attività di impresa.
Perché ci sia esterovestizione, in altri termini, devono sussistere: a) la natura fittizia della localizzazione all’estero della società (l’attività economica non è cioè esercitata nel Paese estero, non verificandosi lì atti di organizzazione e di attività imprenditoriale stabilmente localizzati); b) l’indebito e collegato risparmio d’imposta.
Fatta questa debita premessa, vediamo la decisione emanata dalla sezione tributaria della Corte di Cassazione con ordinanza 34723 del 25 novembre 2022.

IL FATTO

La controversia ha coinvolto una società di autotrasporto slovena. L’Agenzia delle entrate aveva notificato a questa azienda una serie di avvisi di accertamento riguardanti le imposte dirette e l’Iva; questo perché, da una verifica fiscale della Guardia di Finanza, la società era stata giudicata soggetto esterovestito (ovvero aveva finto di risiedere in Slovenia, dove aveva la sede legale, quando invece le decisioni strategiche e l’attività di impresa venivano svolte prevalentemente in Italia). L’azienda aveva fatto ricorso, ma nei primi due gradi di giudizio aveva perso. La società ha quindi impugnato in Cassazione la decisione della Commissione Tributaria Regionale (CTR) sulla base di due argomenti.
In prima battuta, la violazione dell’articolo 73, comma 3 del Testo unico delle imposte sui redditi (TUIR) che, ai fini delle imposte dirette, considera fiscalmente residenti le società (e gli enti) che, per la maggior parte del periodo di imposta, hanno la sede legale, la sede dell’amministrazione o l’oggetto principale nel territorio dello Stato. In altri termini, lo status di soggetto passivo ai fini Ires – Imposta sul reddito delle società – si acquisirebbe quando si verifica la sussistenza di un rapporto tra il soggetto giuridico ed il territorio di riferimento, o perché in quel Paese c’è la sede legale (requisito formale) o perché l’azienda vi esercita l’attività economica prevalente o perché da quel luogo «promanano gli impulsi volitivi inerenti l’attività di gestione dell’ente» (requisiti fattuali).
In secondo luogo, l’azienda lamentava che l’Amministrazione finanziaria non avesse provato né l’indebito vantaggio fiscale né l’insussistenza di valide ragioni economiche da parte della società. Secondo la ricostruzione della ricorrente, infatti, l’esterovestizione rientrerebbe tout court nell’alveo dei fenomeni elusivi, ma non evasivi. La differenza è che, mentre nel fenomeno elusivo si assiste all’aggiramento del precetto tributario attraverso comportamenti che, pur non violando direttamente alcuna norma, in realtà ne tradiscono comunque la ratio e la funzione, nell’evasione fiscale invece si realizza una vera e propria violazione degli obblighi tributari gravanti sul contribuente. Una diversità non formale, visto che l’accertamento dell’evasione comporta, oltre al recupero delle imposte non versate e all’irrogazione di sanzioni amministrative (provvedimenti comuni pure ai casi di accertata elusione), anche la possibile esposizione a conseguenze di natura penale.

LA DECISIONE

La Cassazione però non si è lasciata convincere dalle tesi dell’azienda di autotrasporto. Innanzitutto, la Corte ha citato l’art. 5 del modello di convenzione Ocse contro le doppie imposizioni. Secondo questa normativa, il requisito necessario per l’applicazione dell’imposizione Ires è la presenza di un soggetto anche non residente in Italia, ma che presenti nel nostro Paese una “stabile organizzazione“, ovvero una “sede fissa di affari”, esercitandovi tutta o parte dell’attività. Elementi che devono sussistere con riferimento al singolo anno d’imposta, considerata la loro propensione a variare nel tempo.
Anche la UE, nella direttiva n. 77/388/Cee – spiega poi il giudice – richiama questo concetto di “centro di attività stabile” ai fini Iva, per cui è necessario che tale centro di attività presenti un grado sufficiente di stabilità ed una struttura idonea a rendere possibile lo svolgimento autonomo delle relative operazioni. Non basta dunque l’esercizio di attività meramente preparatorie o ausiliari all’impresa (come ad esempio l’assunzione del personale o l’acquisto dei mezzi tecnici necessari allo svolgimento delle attività aziendali).
La Cassazione ritiene in sintesi esatta l’analisi della CTR che avevano individuato in Italia la sede dell’amministrazione della società, in conflitto con il dato formale della sede legale stabilita all’estero.
Per la seconda osservazione, la Cassazione ha ritenuto che la contestazione di esterovestizione richieda un esame concreto dei criteri di collegamento previsti dall’articolo 73, comma 3 del TUIR – sede legale, sede dell’amministrazione o oggetto principale – a prescindere dal rilievo sul carattere abusivo della collocazione estera della società controllata.
In altre parole, la verifica della residenza fiscale in Italia di una società formalmente residente all’estero non richiede necessariamente l’imputazione e l’accertamento di una finalità elusiva per ottenere uno specifico vantaggio fiscale, che altrimenti non le spetterebbe.
ll ricorso è stato dunque rigettato.

LE CONSEGUENZE

Il punto più significativo della decisione riguarda appunto quest’ultima argomentazione. L’amministrazione finanziaria può contestare l’evasione fiscale all’azienda contribuente e appurare dunque se sussista uno dei tre criteri che la collegano al territorio italiano (sede legale o sede dell’amministrazione od oggetto principale), «a prescindere dall’accertamento di un’eventuale finalità elusiva».
Con questa conclusione, il collegio giudicante ha dato continuità al filone giurisprudenziale in base al quale la contestazione di esterovestizione prescinde dalla sussistenza di qualsivoglia forma di abuso del diritto, già affermato dalle sentenze 23150/2022, 11709/2022 e 11710/2022.
Va però anche detto che – come spesso accade – esiste un orientamento contrario della stessa Cassazione, secondo cui il fenomeno dell’esterovestizione rientrerebbe tra i fenomeni abusivi (Cassazione, sentenza 4463/2022, 7454/2022 e 8297/2022).
Occorrerà dunque vedere quale di queste due tesi prevarrà in futuro.

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