C’era una volta, non troppi anni fa, un pianeta talmente inquinato che chi lo abitava ritenne giustamente di proteggerlo. La cosa più ovvia apparve quella di iniziare dalle attività più produttive di emissioni, quali appunto i trasporti, responsabili in Europa del 30% delle emissioni totali di CO2. Una delle prime strade green a essere imboccate era quella che conduceva al gas naturale, in particolare nella sua versione liquefatta, in quanto poteva sfruttare serbatoi più capienti rispetto alle bombole. E seppure i camion così alimentati, identificati con l’acronimo GNL, non facessero faville in termini di riduzione della CO2, in compenso erano straordinariamente efficaci nel taglio delle polveri sottili e, per di più, potevano funzionare anche con un gas, identificato con la sigla «Bio», che, oltre ad azzerare la quasi totalità delle emissioni, aveva il pregio di provenire da dietro casa. Cosa non irrilevante in un Paese che basa le proprie fonti energetiche esclusivamente sulle importazioni.
La cosa ha preso piede, se è vero che oggi in Italia circolano più di 3.500 camion GNL e si producono un paio di miliardi di metri cubi di biometano. Ma la salvaguardia delle sorti della Terra – si diceva – merita ben altri sforzi. Ed ecco perché in anni recenti gli stessi abitanti del pianeta hanno deciso di mettere in moto una transizione ecologica imponente, indicando pure le date entro cui attuarla: 2035 e 2040, vale a dire i due momenti in cui interrompere rispettivamente la produzione di vetture e quella di furgoni con motori termici. Una fretta motivata dall’emergenza ambientale, ma pure da scarso senso della realtà anche perché ha investito anche i camion.
Prova ne sia che le conseguenze generate dall’accelerazione della transizione sono divenute paradossali. Le spiego con un esempio facile facile. Immaginate di produrre in esclusiva un bene utilizzato da tanti, ipotizziamo lo zucchero. Un giorno i vostri clienti vi comunicano che il vostro prodotto fa male e che tra una decina di anni ne faranno a meno. Ma siccome almeno oggi lo zucchero è ancora necessario in tante lavorazioni, voi pensate bene di alzare i prezzi per farvelo pagare di più prima che scompaia dal mercato. Di conseguenza, viene sospinto in alto anche il prezzo di tante cose realizzabili con lo zucchero e di buona parte dei dolcificanti.
Lo stesso meccanismo al rialzo, fuor di metafora, ha funzionato per il prezzo del gas, interessando quello utilizzato dai camion che avrebbero dovuto inquinare meno, quello che serve a produrre l’adblue con cui si puliscono le emissioni dei camion diesel di ultima generazione (e che spesso si fatica a reperire), quello che serve per produrre energia elettrica. Anzi, siccome l’aumento del gas è stato straordinariamente consistente (è più che raddoppiato di prezzo), alla fine tanti sono tornati a rimpiazzarlo con il carbone. Pensate che nel 2021 la percentuale di energia prodotta con questo combustile è cresciuta del 9%.
Un po’ analogamente anche i produttori di petrolio, venuti a conoscenza dello scarso periodo di tempo rimasto per fare profitti, hanno deciso di contenere produzione ed estrazione, malgrado la domanda post-pandemica stesse fortemente lievitando. Così il prezzo del petrolio è schizzato in alto e sulla stessa scia si sono mossi i suoi derivati, gasolio in testa.
Sarebbe utile ricordare quanti camion acquistati per contribuire alla causa ambientale oggi rimangano fermi sui piazzali, perché è antieconomico farli circolare. Così come sarebbe utile trovare forme di sostegno – come i tagli alle imposte dei carburanti – per consentire a tante aziende di autotrasporto di non ridurre i propri servizi, all’inflazione di non andare fuori controllo e ai consumi di non deprimersi. Ma farlo prima dell’elezione del presidente della Repubblica non sarebbe servito a niente perché per mesi non si è parlato di altro. Follia sopra follia.