Le linee guida del ministero sono arrivate il 20 marzo, precedute e seguite da due protocolli il 14 marzo e il 24 aprile. Il tutto poi è diventato legge con il DPCM del 4 maggio, all’avvio della Fase 2 della battaglia contro il Covid-19. Ma le imprese di autotrasporto non hanno atteso tutto questo rosario di scadenze e questa valanga di scartoffie: dovendo operare anche in piena pandemia per garantire la distribuzione di farmaci, alimentari e generi di prima necessità, già da fine febbraio hanno cominciato ad attrezzarsi per proteggere la salute dei propri dipendenti e non mettere a repentaglio quella di committenti e destinatari.
Emblematica l’iniziativa di Stefano Ciliento, amministratore delegato di Belsitalia Trasporti a La Spezia, specializzato in container. Sarà che la sua filiera lo ha reso più attento di altri alle vicende cinesi, ma già il 18 gennaio, al primo allarme da Wuhan, è andato al supermercato più vicino e ha confezionato un kit di sicurezza per ciascuno dei suoi dipendenti (25 autisti e 9 impiegati): 5 mascherine FFP2, un flaconcino di Amuchina, un pacco da 100 di guanti in lattice, una busta di guanti di plastica e una confezione di 10 pacchetti di Scottex. «All’inizio mi prendevano in giro», ridacchia oggi. Ma dopo qualche giorno anche gli altri hanno dovuto mettersi a caccia dei Dispositivi di protezione individuale (DPI), scontrandosi con un mercato da borsa nera, che ancora ai primi di maggio non si era stabilizzato, nonostante gli interventi del governo sia nel precisare i dispositivi da utilizzare, sia nel tentare di calmierarne i prezzi.
La dotazione giornaliera
Per ricostruire quanto sia costato alle imprese di autotrasporto attrezzarsi per continuare a lavorare in sicurezza, Uomini e Trasporti ha sondato un gruppo di aziende di differenti dimensioni, localizzazione e tipologia di servizio. In primo luogo ne è scaturito un quadro dell’uso dei dispositivi. Mediamente (ma con rilevanti variazioni a seconda del tipo di merce o di veicolo) a ogni singolo autista sono state destinate 1-2 mascherine quotidiane (per 21 giorni lavorativi al mese), 4-5 guanti monouso – per lo più in lattice – al giorno (arrotondando, una scatola da 100 al mese), un flacone di gel per le mani e una bomboletta di igienizzante per la cabina (di entrambi se ne consumano un paio al mese). Questo kit, in tempi normali, ha un costo medio intorno ai 100 euro, ma soprattutto all’inizio dell’allarme contagio i prezzi hanno subito un’impennata solo parzialmente riassorbita con il passare dei giorni, per cui è presumibile che il costo medio si sia attestato sui 150 euro mensili ad autista.
Ma più o meno la stessa la spesa le imprese l’hanno dovuta sostenere per ciascuno degli addetti ai magazzini e degli altri dipendenti (mascherine e guanti al personale, gel igienizzante agli ingressi) che non hanno potuto dirottare sullosmart working. Poi, ci sono da aggiungere i costi della sanificazione, che, oltre a pulire e igienizzare, decontamina l’ambiente, abbattendo i microrganismi patogeni in maniera più duratura e richiede attrezzature specifiche. È praticamente impossibile ricondurre il calcolo a costi medi, anche perché il protocollo per la sicurezza dei trasporti si limita ad affermare che «la sanificazione e l’igienizzazione dei locali e i mezzi di trasporto e dei mezzi di lavoro deve essere appropriata e frequente». C’è chi si è affidato a un’azienda specializzata (che pullulano sul web, con l’immagine del Coronavirus in bella evidenza) e chi ha acquistato macchinari più o meno sofisticati (soprattutto le imprese con uffici e magazzini) che vanno dai 3-400 euro in su e che prevalentemente sparano ozono che distrugge i microbi. E, dunque, ai 150 euro mensili per dipendente, ce ne sono da aggiungere almeno altri 70, scomponendo per il numero dei dipendenti le spese di decontaminazione. Che fa un totale di 220 euro a persona. Medio e approssimativo, ma giusto per avere un’idea. In Lombardia, dove esiste l’obbligo della misurazione della temperatura corporea potrebbe diventare qualcosa di più.
Guanti e mascherine, cari e irreperibili
Oltre ai costi, poi, c’è da mettere nel conto le difficoltà di reperimento dei dispositivi, soprattutto nelle fasi iniziali e soprattutto per le mascherine. Qualcuno ha riletto la sigla: DPI, come «Difficili. Preziosi. Introvabili». Piero Castelli, della Transportline di Lodi, specializzato nei farmaci e, dunque, impegnatissimo nel pieno della pandemia e nel cuore della prima zona rossa, le ha cercate dappertutto per i suoi 50 autisti e alla fine le ha dovute comprare sia su internet che in farmacia, ma a 3 euro le chirurgiche e a 9 le FFP2. Con un paradosso: «Avevo i camion pieni di mascherine da portare negli ospedali, ma non le potevo toccare e non ne avevo per i miei autisti».
All’inizio sono anche apparsi sulla scena gli «intermediari di mascherine». Ciliento, esaurito presto il primo kit improvvisato, ha respinto un rivenditore di accessori auto che gli proponeva una partita a un prezzo spropositato. Anche Castelli è stato contattato, «ma era gente che non conoscevo. E gli sconosciuti non sai cosa ti danno». Federico Di Carlo, della Cedica (Roma), invece, ha provato a fidarsi, «ma non rispettavano le date di consegna». Poi ha trovato un’azienda tessile di Cisterna (Latina) che si stava riconvertendo dai materassi alle mascherine. Lì ha comprato (al prezzo accessibile di 1,20 euro l’una) le prime 300: di stoffa e dunque lavabili e riutilizzabili. Addirittura, alle mascherine fai-da-te ha dovuto invece far ricorso all’inizio Riccardo Morelli, Morelli Trasporti di Narni (che però non possono essere usate come DPI) per fornirne almeno una al giorno ai suoi 50 dipendenti, prima di aver avuto quella che definisce la «fortuna di trovare una fornitura di quelle chirurgiche». Il problema è ricominciato dopo l’annuncio del governo che sarebbero state vendute a 50 centesimi. «Da quel momento sono diventate introvabili».
Fenomeno confermato anche dalle imprese più strutturate. Fercam, 3.350 unità di carico, 2.100 collaboratori diretti, 91 filiali in tutto il mondo, di cui 50 in Italia – consuma 10 mila mascherine al mese non solo per i suoi 300 autisti e impiegati, ma anche per i dipendenti delle cooperative che si occupano della movimentazione nei magazzini. «Vogliamo mettere in sicurezza l’intera supply chain», spiega Giulio Piazza, direttore amministrativo della multinazionale bolzanina. Piazza ha sondato un centinaio di aziende prima di trovare a Bergamo una che garantiva dispositivi a norma e consegne quasi immediate, ma a prezzo diversificato. All’inizio, un ordine di 10 mila mascherine chirurgiche veniva pagato 2,80-3 euro a pezzo, poi i prezzi si sono abbassati. «Dopo l’annuncio del governo per portare il prezzo fisso a 50 centesimi più Iva», conclude, «non se ne trovano più».
È successo lo stesso a Mario Di Martino della Di Martino Trasporti, 800 autisti per 2500 veicoli (l’azienda è specializzata nel combinato ferroviario e marittimo), che di mascherine ne consuma 1.600 al giorno. «All’inizio le abbiamo pagate un’ira di Dio, per di più in un clima di grande confusione: per i primi ordini abbiamo speso anche 20 mila euro. Poi a fine aprile abbiamo trovato un’azienda che ce le vendeva a 70 centesimi. Gliene abbiamo ordinate 10 mila. Ma non ce le hanno mai consegnate».
Per i guanti i problemi sono arrivati più tardi. All’inizio si trovavano anche dal ferramenta: un pacco da 100 di quelli in lattice costava 6-7 euro, mentre per quelli in nitrile più resistenti, ma forse meno elastici, si arrivava a 10-12 euro. «Adesso», racconta Di Carlo, «costano il doppio e non si trovano. Facciamo gli ordini, ma non arrivano». Anche Morelli conferma: «I guanti monouso – ce ne servirebbero 3-4 al giorno per persona – non si trovano più e i prezzi sono decuplicati». E Di Martino ribadisce: «Sono introvabili. E insostituibili: i guanti da lavoro non vanno bene, non sono lavabili».
Pulire, igienizzare, sanificare
Per la pulizia del camion la prima mossa è stata quella di affidarla all’autista. Molto imprese, che prima facevano ruotare i conducenti, hanno deciso di affidare a ciascuno di loro sempre lo stesso veicolo, dotandoli di bombolette spray a base di ipoclorito di sodio (in pratica l’Amuchina) per l’igienizzazione che generalmente viene effettuata quotidianamente a fine turno. Ma non solo. «Io la faccio fare anche prima di prendere servizio», spiega Castelli, «raccomandando di andare a fondo su sterzo, cambio e maniglie di entrata e uscita, le zone dove è più facile il trasferimento di microbi dalle mani, anche se si indossano i guanti».
Ma non c’è solo il camion. Ciliento ha tirato su, nelle sue tre filiali, una serie di barriere in plexiglas che gli sono costate 2 mila euro, ha creato nuove postazioni per distanziarle e ha fornito stampanti professionali ai dipendenti in smart working. E comunque bisogna igienizzare e sanificare anche uffici e magazzini. Morelli all’inizio ha noleggiato l’attrezzatura per la sanificazione, poi – visto che l’emergenza si prolungava – ha acquistato un generatore da ozono da 800 euro. Alle volte, però, basta la stessa impresa che fa le pulizie, se ha le attrezzature e la licenza per igienizzazione e sanificazione. È il caso di Di Martino, con i suoi 236 mila mq di magazzini: «All’inizio», spiega, «anche per questi servizi c’è stata una bolla speculativa, ma non ci ha toccato: avevamo già la nostra impresa autorizzata. In realtà si tratta solo di aumentare la frequenza degli interventi e usare materiali più costosi che per l’igienizzazione».
Il vero problema è per le imprese di grandi dimensioni. Fercam, che deve sanificare 1.200.000 mq di magazzini, ha anche testato il cannone sparaneve a ozono. In Trentino ci sono almeno un paio di aziende produttrici di cannoni da neve che stanno riciclando il loro prodotto per adattarlo alla sanificazione, ma per un’azienda con 50 filiali solo in Italia l’esperimento si è rivelato troppo complesso, anche perché richiede lo svuotamento dei magazzini. E allora, si fa ricorso a imprese di pulizia che igienizzano quotidianamente («ma nelle filiali più grandi anche due-tre volte al giorno», precisa Piazza, «soprattutto nelle zone più promiscue e sulle maniglie delle porte) e sanificano accuratamente con prodotti specifici in particolare nelle aree vuote e dove c’è la moquette. Per maggior sicurezza, oltre alle bombolette spray di liquido igienizzante a ogni ingresso, l’azienda bolzanina ha creato percorsi riservati per dipendenti, personale esterno e fornitori e ha dotato di termometri laser no contact tutte le filiali italiane per verificare la temperatura all’ingresso.
Recuperare? Ma come?
Il tutto comporta un costo importante, soprattutto per le imprese di maggiori dimensioni. Ragionando sulle cifre medie stimate da Uomini e Trasporti, un’azienda con 20 camion, tre impiegati e un ufficietto se la cava con una maggiore spesa mensile di 4-5 mila euro. Ma una del livello di Fercam, sia per quantità che per qualità degli interventi, può arrivare a spendere anche 100 mila euro.
Eppure i costi maggiori non sono quelli prodotti direttamente dalla lotta al contagio. Intanto, per dispositivi e sanificazione ci sono diverse opportunità di ottenere rimborsi dallo Stato o dalla Regioni. Le due misure principali sono nel decreto Rilancio del 19 maggio, che stanzia 403 milioni a fondo perduto per ridurre il rischio contagio (con un massimo di 15.000 euro per le imprese fino a 9 dipendenti, di 50.000 euro per quelle da 10 a 50 dipendenti e di 100.000 euro quelle con più di 50) e concede un credito d’imposta (il 60% della spesa per il 2020 per un massimo di 60 mila euro), per spese di sanificazione e acquisto di DPI.
Ma i veri costi difficili da recuperare sono quelli indiretti: riduzione del lavoro, ritorni a vuoto (a tariffa ridotta) e tempi allungati. «A Milano e Torino, dove operiamo», racconta Roberto Grechi, presidente del consorzio Cafa di Ferrara, 115 camion prevalentemente sulla filiera dello zucchero, «non ci sono stati ritorni per tutto il periodo di lockdown. Ad aprile abbiamo avuto un calo del 28%: gelateria, forni, pasticcierie erano tutte chiuse». E Pino Bulla, vice presidente di Assotir, ricorda i camion carichi di agrumi siciliani che tornano vuoti dal Nord. «I pochi ritorni che si riescono a trovare», aggiunge Castelli, «vanno a ruba, sotto l’euro a chilometro».
«Attenzione», ribatte Ciliento, «la mia paura è proprio che con la crisi, c’è gente che mette all’asta i viaggi. Io non ci sto. Se ho un contratto lo rispetto, ma non svendo il ritorno». Eppure Ciliento – che trasporta container con basi a La Spezia, Venezia e Genova e lavora molto con l’India – ha registrato un rallentamento fino all’80% per l’abbigliamento e fra il 30% e il 50% per gli altri prodotti. Quanto ai ritardi è Di Carlo che ne riassume le cause in poche parole: «È diventata più complessa la gestione dei magazzini, c’è meno personale, aumentano i tempi d’attesa. Anziché un’ora ce ne vogliono quattro, soprattutto nella distribuzione urbana». «Quello che facevi in cinque minuti», conferma Morelli, «ora ne richiede 20. È tutta produttività che si riduce».
Aumenti? Non se ne parla
Recuperare dalle provvidenze del governo non è semplice. Castelli – 50 camion e 30 semirimorchi – non ha neanche presentato la domanda per il finanziamento di 25 mila euro destinato a piccole e medie imprese garantito al 100%. «Non mi bastano neppure per il carburante». La Cafa di Grechi ha anticipato in proprio la cassa integrazione, per non lasciare i dipendenti sul lastrico.
L’alternativa è rivolgersi ai committenti. Bulla racconta che chi han imboccato questa strada «chiedendo un piccolo incremento delle tariffe in questa fase di difficoltà per parare il colpo dei costi in eccesso, è rimasto inascoltato». Il Comitato Agenzie di Logistica e Trasporti della Sicilia orientale ha chiesto un incremento del 20% delle tariffe di trasporto dal 7 aprile al 30 giugno, proprio per recuperare in parte i rientri a vuoto, ma il Consorzio di Pachino – 150 produttori e 33 centri di confezionamento – ha risposto picche: anche loro sono in difficoltà. Per questo la maggior parte delle imprese neppure ci prova. «Pensare di aumentare le tariffe», spiega Piazza, interpretando un sentimento diffuso «sarebbe una politica suicida. È difficile rivalersi su un cliente che ha subito anche lui il danno del contagio».
Un clima di comprensione, insomma, una responsabilità di sistema o, per mutuare l’espressione usata da Paolo Starace, amministratore delegato di DAF Veicoli Industriali, una «gestione dei costi alla romana», che appaiono insoliti nei rapporti – normalmente burrascosi – fra committenti e autotrasportatori. Come se il Coronavirus avesse smosso una imprevedibile solidarietà di fronte al male comune. È stata una bella sorpresa per i tutti gli autisti della Cedica ricevere a fine marzo dal loro principale cliente, Carrefour, un buono spesa di 50 euro per ciascuno. «Magari fra due mesi ricominceremo a litigare come prima», sorride Di Carlo, «ma adesso va così».