Il primo avvertimento di quanto accadeva nel mondo è arrivato lunedì 16 marzo, quando Apple ha riaperto i suoi 42 store in Cina, ma ha chiuso gli altri 469 nel resto del mondo. Erano passati poco meno di due mesi da quel 23 gennaio che aveva visto scattare prima il blocco di tutte le attività nell’epicentro del contagio coronavirus, la megalopoli di Wuhan (11 milioni di abitanti) e la provincia dell’Hubei (60 milioni), poi una serie di forti limitazioni nel resto del Paese, soprattutto nelle principali città, da Pechino a Shanghai. Ma da metà marzo, la ripresa delle attività commerciali – con mascherine, termometri e distanziamento – seguita pochi giorni dopo da quella dei ristoranti e dei cinema, hanno scatenato nei Cinesi la revenge spending, letteralmente «la vendetta della spesa», a smentire quanti prevedevano (o si auguravano) che la pandemia avrebbe modificato il sistema di vita degli esseri umani, rallentandone i tempi e diminuendone la corsa ai consumi.
LA CORSA ALLA RIPARTENZA
D’altra parte, la riapertura degli store Apple ha mostrato chiaramente la volontà di Pechino di accompagnare la severità delle misure con la rapidità della ripresa, per recuperare un calo dei consumi interni del 20% e un deficit commerciale stimato in oltre 7 miliardi di dollari. Il governo cinese si è mosso ai primi segnali di efficacia delle misure di contenimento: a febbraio ha deciso a favore delle imprese riduzioni o esenzioni dai contributi previdenziali per quasi 18 miliardi di dollari che fino a giugno cresceranno a 70 miliardi, avvantaggiando in particolare le piccole e medie imprese, che hanno beneficiato anche della pressione del governo sulle (riluttanti) banche per allentare le richieste di rientro nei loro confronti. La sola Shanghai ha erogato prestiti agevolati e misure assistenziali per oltre 15 miliardi di dollari.
Questa massiccia iniezione di aiuti ha fatto sì che a fine marzo Pechino abbia potuto annunciare che le grandi aziende di medicinali (che producono spesso con brevetti esclusivi) erano tornate ai livelli consueti di produzione e che avevano ripreso il lavoro il 98,6% delle principali aziende del manifatturiero e il 76% delle piccole imprese. Ma è soprattutto sulla logistica che il governo cinese ha concentrato gli sforzi, riducendo (fino al 30 giugno) del 20% delle tasse portuali e finanziando i cantieri con bond emessi da aziende pubbliche, a cominciare da China State Shipbuilding Corporation, fabbrica statale dei mega portacontainer che ha emesso un bond coronavirus da 800 milioni di dollari.
LE INTERRUZIONI DELLA CATENA LOGISTICA
Ma nonostante Pechino si sia affrettata a comunicare che a metà marzo solo il 10% delle attività legate a logistica e trasporti era rimasto indietro, mentre il resto era «pienamente operativo», in realtà la ripresa si è mostrata più lenta e insidiosa del previsto, soprattutto per le interruzioni residue della supply chain, sconvolta dalle misure adottate prima in Cina, poi nel resto del mondo per contenere gli effetti del virus.
Questo è il primo treno merci partito da Wuhan sabato 28 marzo dopo l’emergenza covid-19 e arrivato a Duisburg, in Germania.
Il settore più colpito è stato l’automotive, anche perché a Wuhan si concentra il 10% della produzione di veicoli della Cina e l’Hubei ospita centinaia di fornitori di componenti. Honda – che con due impianti ha una capacità di 1,2 milioni di veicoli l’anno – ha riaperto la fabbrica di Wuhan a metà marzo, ma con personale ridotto e difficoltà a reperire componenti. Anche in altre regioni i costruttori faticano a far arrivare i prodotti ai porti, a causa delle molte strade bloccate e delle minuziose ispezioni sanitarie, diversi da regione a regione.
Quando poi arrivano al mare, i prodotti incontrano un ulteriore problema: nonostante le facilitazioni concesse agli armatori e l’attesa del ritorno dei livelli normali di produzione abbiano concentrato navi e container nei porti del Far East, lo smaltimento dei container, accumulatisi negli scali per carenza di lavoratori portuali e di trasportatori bloccati dalla quarantena, ha ridotto l’offerta di stiva e aumentato i tempi d’attesa. Quasi tutti i 24 mila camionisti registrati a Ningbo, metropoli dove sorge il porto di Zhoushan, provengono da altre regioni: a metà febbraio ne lavoravano solo 800. Le autorità portuali hanno dovuto offrire vitto e alloggio e noleggiare pullman per riportarne in servizio 7 mila.
IL CALO DELLA DOMANDA
Secondo le previsioni di Pechino questo caos dovrebbe sparire entro i primi di maggio e il governo sta facendo di tutto – anche ridurre le tasse sull’export – per riportare le megacontainer cariche di merci cinesi a solcare gli oceani. Ma per scaricare dove? Il contagio del coronavirus, arginato in Cina con metodi autoritari si è trasferito nei paesi di destinazione, dal momento che a essere maggiormente colpiti, con conseguenti blocchi della produzione, sono proprio i paesi occidentali che costituiscono il principale mercato per Pechino. La stessa Cina, del resto, nei porti di Shanghai e Zhoushan, impone la quarantena alle navi in arrivo da Corea del Sud, Iran, Regno Unito e dalla maggior parte dell’Europa.
E i container che da fine marzo hanno ricominciato a partire dai porti cinesi carichi di merci ordinate nei mesi scorsi – quando la guerra al virus paralizzava solo la Cina – ora si accumulano sulle banchine di arrivo dei Paesi di destinazione dove, nel frattempo (una nave impiega 4-6 settimane per percorrere la tratta Far East-Europa), sono scattate le misure di isolamento anti contagio e le attività portuali sono assai ridotte, limitate a forniture mediche e rallentate da controlli sanitari. Secondo Rahul Kappor, vicepresidente di IHS Markit, una delle più importanti società di informazione economica globale, «l’impatto a breve termine sulla crescita commerciale nei prossimi trimestri sarà probabilmente il peggiore di sempre, poiché le economie si bloccano e la domanda esterna affronterà un imminente collasso a causa delle misure di quarantena su larga scala nelle principali economie».
LA DIPLOMAZIA DELLE MASCHERINE
Anche per questo Pechino si è lanciata in quella che è stata definita la «diplomazia delle mascherine», fornendo assistenza – materiali e personale sanitario – a 89 paesi (28 asiatici, 16 europei, 26 africani, 9 nelle Americhe e 10 nel Sud Pacifico) e a quattro organizzazioni internazionali e annunciando un nuovo ciclo di aiuti, mentre l’Asian Infrastructure Investment Bank – l’istituto a maggioranza cinese che finanzia la Via della Seta – ha stanziato 5 miliardi di dollari per prestiti ai Paesi in difficoltà. L’emittente France24 ha esplicitato senza mezzi termini le motivazioni di tale rigogliosa solidarietà: «Con milioni di mascherine per il viso, prestiti a basso interesse e team di esperti medici, la Cina, mentre schiva le critiche sui suoi passi iniziali nella gestione del coronavirus, sta cercando di proporsi, soprattutto agli occhi degli stati europei, come un buon samaritano».
Con milioni di mascherine, prestiti a basso interesse e team di esperti medici, la Cina, mentre schiva le critiche sui suoi passi iniziali nella gestione del coronavirus, sta cercando di proporsi, soprattutto agli occhi degli Stati europei, come un buon samaritano. E in fondo così aiuta i suoi «clienti» a ripartire…
Anche per questo Pechino si è lanciata in quella che è stata definita la «diplomazia delle mascherine», fornendo assistenza – materiali e personale sanitario – a 89 paesi (28 asiatici, 16 europei, 26 africani, 9 nelle Americhe e 10 nel Sud Pacifico) e a quattro organizzazioni internazionali e annunciando un nuovo ciclo di aiuti, mentre l’Asian Infrastructure Investment Bank – l’istituto a maggioranza cinese che finanzia la Via della Seta – ha stanziato 5 miliardi di dollari per prestiti ai Paesi in difficoltà. L’emittente France24 ha esplicitato senza mezzi termini le motivazioni di tale rigogliosa solidarietà: «Con milioni di mascherine per il viso, prestiti a basso interesse e team di esperti medici, la Cina, mentre schiva le critiche sui suoi passi iniziali nella gestione del coronavirus, sta cercando di proporsi, soprattutto agli occhi degli stati europei, come un buon samaritano».
Ma non è solo questione d’immagine. Pechino ha bisogno che i Paesi «clienti» riprendano presto l’attività, ricomincino a produrre (rifornendosi di componentistica cinese) e a consumare (acquistando manufatti cinesi). Per questo non lesina su quella che il vice capo dell’Agenzia internazionale per la cooperazione e lo sviluppo, Deng Boqing, ha definito «l’operazione umanitaria di emergenza più intensiva e di ampia portata dalla fondazione della Repubblica popolare cinese nel 1949».
STRADA E FERROVIA
Il collegamento tuttostrada tra Cina ed Europa sta prendendo piede in questi tempi critici come soluzione alternativa ad altre modalità ingolfate o come un ampliamento dell’offerta. In Italia a proporre un servizio che collega tutti i siti produttivi cinesi con le varie destinazioni europee è Fercam. È pensato per settori specifici (automotive, elettrocomponentistica, ecc), ma costa meno dell’aereo ed è più competitivo del treno. Per passare dalla Cina alla Germania attraversa le frontiere di Kazakhstan, Russia, Bielorussia e Polonia.
Anche perché i dirigenti cinesi, convinti che, stroncato il morbo in casa, avrebbero dovuto tornare a riempire rapidamente di merci cinesi i magazzini della ricca Europa, per anticipare lo sblocco dell’ingorgo nei porti, hanno aperto nuove strade di collegamento ricorrendo a camion e treno. Soprattutto con la conclusione delle restrizioni, che hanno sbloccato gli autisti dalla quarantena, il trasporto su strada ha ripreso slancio proponendosi come un’alternativa funzionale all’intasata via marittima.
Un rapporto del gruppo Manbang, piattaforma logistica con sede a Guiyang, nella Cina sud-occidentale, con 9 milioni di utenti e servizi in 300 città, ha rilevato che a marzo l’attività dei conducenti iscritti alla piattaforma è aumentata del 47% rispetto a febbraio e gli ordini di trasporto sono cresciuti dell’89,5% su base mensile. Già ai primi di marzo a Tianjin era stato attivato un nuovo servizio di trasporto merci su gomma per raggiungere l’Europa. Il primo camion è partito lunedì 9 marzo carico di componenti per aerei ed è arrivato in Germania (10 mila chilometri) in 14 giorni, con costi dimezzati rispetto all’aereo e tempi dimezzati rispetto al treno. E senza quelle rotture di carico che minano la fluidità della catena logistica.
Tant’è vero che primo ad avviare un servizio di autotrasporto tra Cina e Europa è stato lo spedizioniere digitale tedesco InstaFreight, garantendo una ventina di giorni di viaggio, accorciabili ricorrendo (con prezzo maggiorato) al doppio autista. Poi anche in Italia è stata Fercam a lanciare un servizio su strada per collegare tutti i siti produttivi cinesi con le varie destinazioni europee e italiane in 15 ai 17 giorni a seconda del tempo impiegato ai confini dei vari paesi. Limitato ai carichi completi di 20 tonnellate, il collegamento è pensato per settori merceologici quali automotive, elettrocomponentistica, macchinari e prodotti medico-sanitari. E la stessa Pechino intende rafforzare la modalità stradale, avviando un programma di costruzione di superstrade, affidato a China Railway Construction. Ma ci vorrà tempo.
Al momento, perciò, è la ferrovia la modalità che – sulla rotta Asia-Europa – sembra trarre maggior vantaggio dalla crisi dei porti. Nel primo trimestre dell’anno i treni merci tra Cina ed Europa – secondo i dati del China State Railway Group – hanno effettuato 1.941 viaggi, trasportando 174 mila TEU, con un incremento rispettivamente del 15% e del 18% su base annua. Soltanto a marzo, i convogli sono stati 809, trasportando 73 mila TEU, pari al massimo storico per entrambi i dati. Un incremento dovuto al fatto che il servizio ferroviario è suddiviso in vari segmenti e il personale non ha bisogno di entrare in quarantena a ogni passaggio di Stato.
Ma l’evento ferroviario più significativo per la sua valenza simbolica è il treno merci partito da Wuhan per l’Europa sabato 28 marzo con 50 container e diretto a Duisburg, in Germania. Questo treno merci, ha scritto, con una punta di retorica un’agenzia di informazioni marittime, «viaggia come un messaggio di speranza per tutta l’umanità». Una volta, il «treno della speranza» era quello che portava a Lourdes. Ma dato che adesso anche Lourdes è chiusa per coronavirus…