Sarà pure poco più di un’influenza o magari una pandemia, ma il coronavirus una vittima illustre la sta già facendo: il sistema logistico globale. Che – come la maggior parte delle persone cadute sotto i colpi della malattia – era evidentemente malato da tempo o segnato da una fragilità che il morbo proveniente dalla Cina ha messo drammaticamente a nudo.
Negli ultimi due mesi gli algoritmi che governano il sistema globale dei trasporti sono stati messi a dura prova. Abituati a organizzare spostamenti sempre più sbilanciati tra il principale paese manufatturiero del pianeta – la Cina – e i ricchi mercati consumatori di Europa e Nord America (e, si sa, l’algoritmo è una funzione che vive di abitudine), si sono trovati da un giorno all’altro a dover fare i conti con scenari apocalittici: centinaia di fabbriche cinesi bloccate (il distretto industriale di Wuhan, dove è esploso il morbo, conta 500 mega impianti lungo lo Yangtze, il grande fiume che trasporta i prodotti verso il porto di Shanghai), migliaia di navi ferme negli scali, milioni di container bloccati in attesa di ripartire carichi di merci che non ci sono: nel solo mese di febbraio è stata annullata la metà dei viaggi programmati dal Far East verso il Nord Europa, annunciando di fatto una crisi di produzione delle aziende europee per mancanza di approvvigionamenti.
Caos anche nell’altra direzione: con gli scali cinesi intasati (Shanghai, Ningbo e Tianjin: primo, terzo e nono del mondo), le portacontainer vengono dirottate negli scali più vicini (in Malesia, Vietnam o addirittura nell’odiata Taiwan), ma meno attrezzati, dove le attese sono comunque lunghe e il luogo di destinazione più lontano. E, dunque, tempi di consegna aleatori, tariffe ritoccate giornalmente per l’allungamento delle rotte, ricerca affannosa di vettori terrestri a loro volta in difficoltà per la carenza di autisti sfuggiti al morbo. Tipico il caso dei container refrigerati. Il CEO di Seatrade, Yntze Buitenwerf, ha calcolato che ne sono rimasti bloccati nei porti cinesi 120 mila, su un totale di 1,5-1,6 milioni. «Ciò significa», ha spiegato, «che circa l’8% dei container refrigerati sono scomparsi dal mercato a causa del blocco, mentre il carico, per esempio l’ortofrutta, spesso si trova ancora nel container».
DANNI PESANTI
Per quanto Pechino si sia impegnata allo stremo per bloccare il contagio, ridimensionare l’allarme e recuperare i livelli di produzione (nei primi due mesi l’export è crollato del 17%), il danno economico è pesante: ai primi di marzo l’Ocse, definendo il coronavirus una «minaccia senza precedenti» per l’economia mondiale, ha ridotto la crescita cinese di quasi un punto di Pil – dal 5,7% al 4,9% – pari a un centinaio di miliardi di dollari, con un impatto negativo di mezzo punto – dal 2,9 al 2,4% – sulla crescita mondiale (mentre il Pil italiano scenderà molto sotto lo zero rispetto al +0,4% previsto a novembre), che colpirà prima di tutto i settori produttivi più dipendenti dalle forniture asiatiche: automotive, elettronica di consumo, farmaci. TrendForce, società cinese di ricerche di mercato, ha previsto un crollo del 12% della produzione mondiale di smartphone nel primo trimestre 2020 e, a fine febbraio, Apple ha comunicato ai propri investitori che non riuscirà a raggiungere gli obiettivi di fatturato previsti; negli stessi giorni FCA ha annunciato la sospensione (temporanea) della produzione della nuova Fiat 500L nello stabilimento di Kragujevac, in Serbia, per mancanza di forniture dalla Cina; l’autorevole rivista medica inglese Lancet, attribuisce allo stesso motivo una prevedibile crisi della produzione di farmaci in India, che fabbrica il 20% dei medicinali mondiali e acquista il 70% dei principi attivi in Cina, che ne detiene il brevetto esclusivo.
Insomma, il resto del mondo – soprattutto l’Europa – va avanti (dove può) con gli stock, in attesa di affrontare lo tsunami economico in arrivo dall’Estremo Oriente. Non che gli effetti diretti del coronavirus non influenzino le economie locali, ma il peso di Pechino nei commerci mondiali è più dirompente. Per fare un esempio concreto, se il contagio si fosse diffuso una ventina di anni fa, le ricadute economiche sul resto del mondo sarebbero state diverse: nel 2002-2003, anni della Sars, il Pil cinese era il 4% di quello globale, oggi è quadruplicato fino al 16%. Inoltre, mentre la Sars, pur essendo più letale (un tasso di mortalità del 6,6% contro il 2-3% del coronavirus), si propagava più lentamente, il nuovo virus è molto più contagioso (forse proprio a causa dell’incremento degli scambi tra Cina e resto del mondo, testimoniati dal Pil quadruplicato): già a metà febbraio il numero dei contagiati era otto volte superiore a quello dell’intero periodo di epidemia della Sars. Dunque, la vera domanda è: quanto si allargherà il contagio? E, di conseguenza, quanto dureranno l’allarme, le misure di contenimento, i freni alla produzione, le psicosi, il rallentamento dei consumi? La Sars se la cavò, tutto sommato in qualche mese. Ma ora?
MA DOPO? DUE SCENARI PER L’ITALIA
Sembra difficile che il nuovo virus possa sparire in pochi mesi, ma è altrettanto difficile stabilire dove fissare il giro di boa tra uno scenario recuperabile e uno disastroso. Ci ha provato il Cerved, agenzia europea di rating, con uno studio che, esaminando lo stato di circa 25 mila aziende italiane, delinea uno scenario soft (contenimento dell’emergenza entro giugno), e uno hard (oltre tale data e comunque entro fine 2020). Partendo dal dato che nella già difficile situazione pre-coronavirus la probabilità di fallimento delle aziende era del 4,9%, nello scenario soft tale probabilità sale al 6,8% (1,9 punti in più), in quello hard arriva al 10,4% (5,6 punti in più).
La classifica dei settori merceologici più colpiti, tuttavia, non cambia nel confronto tra situazione pre-virus, scenario soft e scenario hard: le imprese più a rischio sono quelle di costruzioni, fornitura d’acqua o di reti fognarie e ristorazione. Ma a ridosso di queste c’è il settore dei trasporti che, quanto a probabilità di default, ancora sotto media (4,8%) prima del coronavirus, sale al 7,3% nello scenario soft e all’11,2% in quello hard.
Molto importante, dunque, sarà capire cosa metteranno in campo gli Stati per frenare gli effetti del morbo sull’economia. L’Ocse raccomanda di «agire presto e con decisione» e consiglia maggiore flessibilità sui vincoli di bilancio, una politica monetaria che tenga basso il costo del denaro e un rilancio degli investimenti. Ma soprattutto è necessario fornire «un’adeguata liquidità al sistema finanziario, permettendo alle banche di aiutare le aziende con problemi di cash flow, in particolare le Pmi, per evitare che imprese altrimenti sane vadano in fallimento mentre sono in vigore le misure di contenimento».
LO SMART WORKING
È un po’ quello che i singoli Stati – a cominciare dall’Italia – si stanno avviando a fare sia pure tra esitazioni e ritardi, dovute alla novità dello scenario. Ma la risposta più immediata è quella fornita da aziende produttrici che hanno subito reagito alle disposizioni per evitare il contagio, riscoprendo lo smart working. In Cina – la prima a reagire per ovvii motivi – i software per le video conferenze (anche fino a 500 partecipanti) hanno visto schizzare i download in un solo giorno. Nel resto del mondo sono scattate per prime le banche e gli istituti finanziari, mentre in Italia – dove fino a ieri lo smart working richiedeva il consenso del lavoratore – il governo ha permesso alle imprese di applicarlo unilateralmente, nel tentativo di utilizzare uno strumento utile a circoscrivere il contagio e a non paralizzare l’economia, ma foriero in tempi normali di altri vantaggi sottolineati anche dal presidente di Federtrasporti Claudio Villa: «Cancellare gli spostamenti evitabili equivale a mettere in condizione le nostre malconce infrastrutture di ospitare veicoli adeguati alla loro capacità. Di conseguenza si ridurrebbero il traffico, le code e, a quel punto, anche l’inquinamento».
IL RESHORING
Ma lo smart working, favorendo l’isolamento, è una risposta sanitaria, non produttiva. Ci sono beni di consumo che non è possibile (ancora) realizzare sul web. Paradossale, il caso del tessile di Prato, cuore dell’economia cinese in Italia (6 mila aziende su 29 mila con titolare orientale). L’intero distretto è fermo in attesa di forniture dalla Cina. Ma anche le imprese tessili italiane che si appoggiano ai produttori del Far East, sia per i fornitori che come joint venture (attenzione: è il fashion made in Italy), sono in difficoltà e stanno pensando di riportare almeno in parte la produzione nel nostro Paese. Lo ha confermato Marino Vago, presidente di SMI (Sistema moda Italia), in un’intervista a Pambianconews: «Se le chiusure dovessero prolungarsi nel tempo, il problema minaccia di concretizzarsi, costringendo le aziende ad approvvigionarsi altrove. Non ci risultano fenomeni di reshoring in atto a causa del coronavirus; sicuramente sarà necessario ricorrere a lavorazioni in altre località solamente se la situazione perdurerà nel tempo». Ipotesi non infondata, se Zhang Tao, segretario generale del Ccpit-Tex (China Council for the Promotion of International Trade), ente impegnato nel tessile cinese, prevede la normalizzazione del settore soltanto fra sei mesi.
Con la diversificazione, del resto, in caso di emergenza basta aumentare gli ordini dal fornitore secondario, come ha scoperto da tempo l’automotive che acquista dal Far East solo il 60-70% dei componenti, appoggiandosi per il resto a fornitori più vicini, insediati nei paesi a basso costo della manodopera dell’Est Europa. Un’opportunità anche per l’Italia che potrebbe trovare più spazio sul mercato per i suoi 5 milioni di piccole e medie imprese. Sempre che il contagio non si allarghi troppo e non arrivi a colpire le aree da dove partono le forniture alternative. Com’è accaduto a FCA, che proprio sotto emergenza coronavirus ha dovuto convincere il prefetto di Lodi a una deroga per far arrivare le componenti elettroniche dalla Mta di Codogno, in piena zona rossa.
I CONSIGLI DEGLI ESPERTI
Insomma, una matassa intricata della quale le aziende stentano a trovare il bandolo, mentre le società di consulenza strategica si affrettano a dare suggerimenti. L’americana Bain&Company, una delle principali del settore, partendo dalla premessa che «un approccio attendista è spesso la mossa più dannosa» ha dettato cinque regole così sintetizzabili: ridefinire gli obiettivi di fine crisi, valutando mercati e prospettive, e adeguare a questi il piano a breve; proteggere lo staff e rafforzarlo acquisendo risorse che la crisi rende disponibili; tagliare i costi e gestire la liquidità, liberandone altra dalle pieghe del bilancio; monitorare e regolare velocemente l’offerta di prodotti e le leve commerciali per tenere il passo con il cambiamento; investire a lungo termine, considerando i potenziali cambiamenti delle condizioni del mercato.
Altri, invece, propongono di introdurre due strutture nel processo logistico. Da una parte una Control Tower, che colga in tempo reale le indicazioni del mercato e consenta di attivare fornitori alternativi, modificare i piani di produzione, spostare attività produttive da un impianto all’altro, creare stock di sicurezza e così via. Dall’altra un Risk management capace di identificare in tempo i principali rischi, valutandone le conseguenze e decidendo le azioni per minimizzarne l’impatto.
Anche se la Cina uscirà quanto prima dalla crisi, insomma, il coronavirus lascerà traccia nel modo di operare delle imprese: incremento del telelavoro, analisi più stringenti dei rischi, coordinamento più ampio, maggiore diversificazione delle forniture diventeranno linee aziendali permanenti. Come la cicatrice del vaccino antivaioloso sul braccio dei ragazzini che rimaneva per tutta la vita. Grazie a quel vaccino, il vaiolo oggi non esiste più. C’è da augurarsi che il vaccino economico che le imprese ricaveranno dall’esperienza del coronavirus le metta al riparo altrettanto bene.