C’è del tenero fra autotrasportatori e rifiuti. Nel giro di pochi anni, tra il 2011 e il 2017, secondo le rilevazioni dell’Anfia (l’associazione dei produttori italiani di autoveicoli), la percentuale di t/km di «materie prime secondarie, rifiuti urbani, altri rifiuti» trasportate su strada è letteralmente triplicata in soli sei anni, passando dal 5,1% al 15% del 2017, raggiungendo un totale di quasi 8 miliardi. E dall’Albo dei gestori ambientali confermano non solo che il numero delle aziende iscritte – dotate di veicoli – è cresciuto negli ultimi anni, fino a raggiungere la rispettabile cifra di 164.886 imprese (di cui 130 mila in conto proprio e 35 mila in conto terzi), ma che il numero di mezzi è letteralmente esploso arrivando a 628.540 unità. Un bel segnale, in un contesto in cui il mercato dei veicoli commerciali sopra le 3,5 tonnellate è stagnante e quello dei pesanti (oltre le 16 tonnellate) perde oltre il 6%, con punte mensili di cali a due cifre.
La causa principale di questo andamento in controtendenza del trasporto di rifiuti è certamente l’incessante crescita della produzione nazionale, che negli ultimi cinque anni sembra voler ignorare la crisi, tornando ai livelli del 2008, nonostante gli alti e bassi degli urbani (le difficoltà si avvertono prima nel mondo delle imprese, ma durano più a lungo per le famiglie) scesi del 10%, sotto i 30 milioni di tonnellate. Perdita ampiamente compensata dalla marcia travolgente dei rifiuti speciali che, dal 2014 a oggi, di tonnellate in più ne hanno recuperate quasi 10 milioni, portando il totale a quasi 170 milioni. Un fiume di rifiuti che si sposta quasi tutto su strada e che qualche mese fa Paolo Giacomelli, vice direttore di Utilitalia, Federazione che riunisce le aziende dei servizi pubblici di acqua, ambiente ed energia elettrica, ha calcolato come un viaggio lungo un miliardo e 200 milioni di chilometri, pari a 175 mila volte l’intera rete autostradale italiana.
Il fiume di rifiuti prodotti dall’Italia in un anno sarebbe in grado di coprire un miliardo e 200 milioni di chilometri, pari a 175 mila volte l’intera rete autostradale italiana
Paolo Giacomelli, vice direttore di Utilitalia
Il che vuol dire che il rifiuto, da quando diventa tale a quando viene smaltito o riciclato, passa la maggior parte del suo tempo a bordo di un mezzo di trasporto, che è prevalentemente un camion. Una frequentazione, insomma, sempre più assidua – quella fra camionisti e rifiuti – che ha stimolato lo spirito d’impresa dei nostri trasportatori, soprattutto di quelli che per primi si sono mossi in questo settore e si sono, quindi, trovati pronti per intercettare una domanda di trasporto diventata negli anni sempre più specialistica e per offrire servizi sempre più inseriti nel ciclo dell’economia circolare.
Le aziende crescono
È giunto il tempo di fare un passo ulteriore. Sarebbe interessante creare, per esempio, un centro di stoccaggio. Si tratta di non avere con il rifiuto solo un rapporto passivo – quello del trasporto – ma di aggiungervi accanto anche un’altra attività remunerativa
Eugenio Zaninoni, presidente del Coap di Piacenza
Basta leggere le note storiche che moltissime aziende allegano con orgoglio ai propri siti web. I più hanno cominciato ad accorgersi del business legato al trasporto dei rifiuti negli anni 90, ma chi ha avuto la vista più lunga si era mosso già nel decennio precedente. «Abbiamo cominciato alla fine degli 80», racconta Eugenio Zaninoni, presidente di Coap, un consorzio di Piacenza, composto da 90 imprese e 200 automezzi, nato nel 1973 per offrire servizi generici di trasporto su gomma. «A quell’epoca si portava tutto nelle discariche. Poi, negli anni 90, è cambiato tutto: sono nate le prime aziende di riciclaggio e i centri di stoccaggio. Noi eravamo pronti e coprivamo l’intero Centro Nord. Abbiamo colto l’opportunità». Oggi il consorzio ha un fatturato di circa 24 milioni, metà dei quali provenienti proprio dai rifiuti. Soprattutto legname che, sottolinea Zaninoni, «una volta finiva nelle discariche, mentre adesso viene recuperato, lavorato, pulito e ne esce un pannello truciolato che non ha rivali in Europa». E che ha spinto la Coap a dotarsi di semirimorchi a pianali mobili: «Il camion arriva con il truciolato di scarto da lavorare e carica, nella stessa azienda, il prodotto finito. Così non abbiamo neppure ritorni a vuoto», conclude soddisfatto il presidente del consorzio piacentino.
Gli impianti che ricevono i liquidi raggiungono prima della fine dell’anno la quota autorizzata e a quel punto non ne accettano più, mettendo in crisi non solo i trasportatori ma anche le stesse industrie che devono smaltire il rifiuto. Con la conseguenza che i produttori, non trovando sbocchi in Italia, finiscono per mandarli all’estero
Marco Vincenzi, responsabile Qualità, Sicurezza e Ambiente del GAM di Mantova
Una storia simile è quella della GAM di Mantova, un altro consorzio datato 1956. Da sempre in collegamento con le raffinerie della zona, si è specializzata nei rifiuti liquidi negli anni 90. «All’inizio operavamo nel settore con pochi camion», ricorda Marco Vincenzi, responsabile qualità, ambiente e sicurezza del consorzio, «adesso ne abbiamo 80: tutte cisterne costruite su misura per le nostre attività». Ma, a differenza dal legno, il problema dei rifiuti liquidi industriali è alla fine del ciclo. «Gli impianti che ricevono i liquidi raggiungono prima della fine dell’anno la quota autorizzata», spiega Vincenzi, «e a quel punto non ne accettano più, mettendo in crisi non solo i trasportatori ma anche le stesse industrie che devono smaltire il rifiuto. Con la conseguenza che i produttori, non trovando sbocchi in Italia, finiscono per mandarli all’estero».
La carenza d’impianti
Non sono solo i liquidi industriali, tuttavia, a soffrire della carenza di impianti. Il malato principale è il rifiuto urbano. Per trattare gli 1,8 milioni di tonnellate che restano fuori dai termovalorizzatori ce ne vorrebbero almeno altri 8 (prevalentemente al Sud) da aggiungere ai 41 esistenti (prevalentemente al Nord). Il calcolo è contenuto nel decreto cosiddetto «Sblocca Italia», che proprio per rimediare in qualche modo a questa carenza, nel 2014 aveva rinunciato all’autosufficienza regionale per lo smaltimento dei rifiuti urbani, autorizzando perciò a inviarli a bruciare anche nelle altre Regioni. Con tre conseguenze: saturare gli impianti (soprattutto degli inceneritori) anche al Nord, far lievitare i prezzi per il conferimento e invadere le strade con camion pieni di rifiuti urbani che vanno su e giù (più su che giù) per il nostro Paese. Come se non bastasse, i comitati contrari alla realizzazione di nuovi termovalorizzatori hanno presentato ricorso al TAR contro il decreto, sostenendo che prima di incenerire bisogna recuperare e l’organo di giustizia amministrativa ha pilatescamente rinviato la decisione alla Corte di Giustizia europea.
In attesa della sentenza dell’assise di Lussemburgo, i camion carichi d’immondizia continuano a circolare sulle strade italiane: un tourbillon che l’Albo dei gestori ambientali ha fotografato, segnalando che il 49% dei rifiuti viene movimentato entro i 25 km, mentre il 23% percorre oltre 100 km. In peso, sono 44 milioni di tonnellate d’immondizia che viaggiano per oltre 100 chilometri e sono 14 quelli che superano i 300 km. Un dato in netto aumento: nel 2012 quel 23% era solo il 19%.
Perché, se Atene (i rifiuti urbani) piange, Sparta (i rifiuti speciali) non ride. Anzi. L’esubero rispetto agli impianti è superiore, in un settore che – come abbiamo visto – cresce, alla faccia della crisi, a ritmi doppi rispetto al PIL nazionale. Secondo il Laboratorio REF Ricerche, sono 2,1 le tonnellate di rifiuti in esubero, sommando quelle destinante all’export (circa 1,3 milioni di tonnellate) a quelle stoccate e destinate a smaltimento (700 mila tonnellate). La carenza d’impianti, poi, è stata ulteriormente aggravata da una sentenza del Consiglio di Stato dello scorso anno, secondo la quale il potere di decidere quando un rifiuto non è più un rifiuto (il cosiddetto «end of waste») spetta solo allo Stato e non – come accadeva per prassi consolidata da anni – a Regioni e Province, con la conseguenza che molti impianti hanno visto invalidare da un giorno all’altro le autorizzazioni ottenute dagli enti locali. E neppure aiutano i comitati «not in my back yard» come quello che ha bloccato l’inceneritore della Cartiera di Mantova, solo dopo molti mesi autorizzato dal TAR (erano 342, nel novembre 2017, secondo Federat, la Confederazione generale europea datoriale, i progetti bloccati in Italia dai nimby). La conseguenza più immediata (e scontata) di questo groviglio di ritardi della politica, di opposizioni localistiche e di bizantinismi della burocrazia è stata un netto aumento dei costi di smaltimento – spesso raddoppiati, talvolta triplicati – con un aggravio per le imprese di 1,3 miliardi di euro che inevitabilmente finirà per scaricarsi sulla spesa delle famiglie.
Anche perché l’aumento di questi costi rischia di ampliarsi a causa della chiusura del mercato cinese che dallo scorso anno non accetta più rifiuti come la plastica, i residui tessili e la carta: in tutto 56 tipologie di prodotti di bassa qualità, lasciando spazio solo agli scarti riciclabili più facilmente e a costi inferiori. Una chiusura che ha avuto anche l’effetto collaterale di far crollare il valore di mercato dei materiali da riciclare. Soprattutto carta e plastica: finché reggeva la domanda cinese (prima del blocco, Pechino importava più del 70% degli scarti di plastica prodotti in tutto il mondo), carta e cartone venivano pagati bene e le imprese che li esportavano non solo si ripagavano i costi, ma riconoscevano un qualche ricavo anche ai produttori degli scarti.
L’integrazione
Tutti problemi che rischiano di far diventare di piombo l’oro delle uova che i trasportatori avevano trovato nella gallina dei rifiuti. Perché la mancanza di sbocchi spinge verso soluzioni rabberciate o illegali e, alla fine, verso la criminalità. Negli ultimi anni, i procedimenti per incenerimento di rifiuti definiti nelle Procure della Repubblica sono cresciuti in maniera esponenziale dai 6 del 2013 ai 178 del 2015, fino ai 244 del 2016. Un brutto segnale, proprio mentre il governo proclama di voler improntare al «Green new deal» tutta la propria azione politica. Una strategia, spiega Filippo Brandolini, vicepresidente di Utilitalia, che «non può non passare prima per una misurazione dei fabbisogni, che preluda alla chiusura del ciclo dei rifiuti e alla realizzazione degli impianti mancanti per il recupero e il trattamento, e che incentivi l’utilizzo delle materie prime seconde».
È l’economia circolare. Anziché scaricare all’estero, bisogna riciclare in Italia. Ma c’è bisogno, prima di tutto, di un cambio di mentalità. «Ciò che va capito», afferma Arnaud Brunet, direttore generale del Bureau of International Recycling, la principale associazione internazionale delle industrie del riciclaggio, «è che noi in realtà non ci stiamo liberando di quei rifiuti, ma li stiamo vendendo. Oggi i rifiuti sono una risorsa tanto quanto l’acqua, il carbone e il petrolio, e quindi vanno sfruttati». È un’opportunità, dunque, che comincia nel momento in cui il rifiuto esce, come scarto, da una fabbrica e sale a bordo di un camion che lo porta a un impianto di trasformazione, magari stoccandolo, impacchettandolo, preparandolo al passo finale.
È lì che le imprese di autotrasporto attive nel settore dei rifiuti stanno concentrando la loro attenzione. Qualche esempio: c’è la famiglia di trasportatori di Bari – la «Recuperi pugliesi» – che dopo quarant’anni di trasporto ha realizzato un impianto per la lavorazione e il recupero delle materie plastiche «previo lavaggio ed estrusione con l’ottenimento di granulo»; o l’azienda campana «Ricicla» che, oltre ai tradizionali servizi di raccolta, trasporto, smaltimento e riciclo dei rifiuti urbani e speciali (pericolosi e non), si è impegnata «nelle bonifiche dei siti abbandonati anche in fibrocemento amianto, nella gestione di piani di monitoraggio e controllo ambientale, con campionamenti e analisi»; o l’impresa veneta di trasporti «Euro-Cart» che ha attrezzato due magazzini di 3 mila e 4,5 mila metri quadrati per la differenziazione e la selezione: prima «una separazione sommaria delle frazioni mediante un mezzo meccanico dotato di ragno» – dettaglia con fierezza il sito web – poi «una cernita manuale dei rifiuti recuperabili», quindi sottoponendo ad «adeguamento volumetrico» carta e plastica, infine avviando periodicamente le frazioni recuperate «a impianti di recupero/riutilizzo, mentre la frazione residua non recuperabile viene avviata allo smaltimento».
Perché la logistica del rifiuto è diversa da quella degli altri generi merceologici che richiedono al massimo un’attività di carico e scarico e una di magazzinaggio. Nella crescente frequentazione fra trasportatore e rifiuto, nella specializzazione sempre più esasperata delle tante varianti di questa particolare tipologia di merce si crea una vasta area di concentrazione delle competenze che offrono al vettore l’opportunità di inserirsi nel processo di trasformazione. L’economia circolare, secondo l’economista Giulio Sapelli, «non è solo un fatto tecnico, un’attività produttiva senza ’sprechi’, ma una conoscenza condivisa che diventa un’etica». È più facile farlo che dirlo. «Nei nostri progetti», conclude Zaninoni, «c’è anche l’idea di fare un passo ulteriore. Ci stiamo accorgendo che sarebbe interessante creare, per esempio, un centro di stoccaggio. Si tratta di non avere con il rifiuto solo un rapporto passivo – quello del trasporto – ma di aggiungervi accanto anche un’altra attività remunerativa». Più chiaro di così!